«Nel 1967 il Racing si aggiudicò la Coppa Libertadores. Qualche notte dopo alcuni fanatici  dell’Independiente si introdussero nello stadio della loro rivale di Avellaneda e vi seppellirono sette gatti neri. Avuto sentore della faccenda, i racingmen ne disseppellirono sei. Smossero cielo e terra ma l’ultimo restò introvabile. Il sortilegio funzionò: mentre l’Independiente volava da una vittoria all’altra (cinque Coppe Libertadores), il Racing languiva, fino a dichiarare fallimento nel 1999. I suoi tifosi avevano ormai un’unica ossessione, trovare i resti dell’ultimo gatto. Arrivarono in centomila da tutta l’Argentina, setacciarono di nuovo il campo e alla fine lo scovarono in un canale ricoperto di cemento. L’anno dopo il Racing vinse il campionato, il suo primo titolo dai tempi del sortilegio, trentasei anni prima».

L’aneddoto di superstizione assoluta e tante curiosità, spigolature, riflessioni  fanno parte di Nel paese dell’aquilone cosmico (appena pubblicato da Neri Pozza, pp. 128 euro 13,50) pamphlet sul calcio argentino tra culto ed eccessi, la danza spensierata di una nazione in continuo default. L’ha scritto, dopo un’immersione in loco, un fanatico della sfera magica che sogna di rinascere come enfant prodige dello Strasbourg, il giornalista e scrittore francese Olivier Guez, già autore di La scomparsa di Josef Mengele (2017) e Elogio della finta (2018) che ragionava sul futbol bailado brasiliano partendo da  Garrincha. Guez sarà protagonista, insieme al collega Maurizio Crosetti, di un incontro intitolato «La mano de dios: una vita di corsa» sul divino Maradona  il 3 settembre al Festival della Mente di Sarzana.

Tornando al libro, gli aficionados, le creature agitate dalla febbre tifoide verso una squadra, quelli che condividono una passione assurda e divorante (e sono più di un miliardo nel globo ) troveranno godimento in questa breve disquisizione sullo sport del pallone  in area rioplatense, quel passatempo portato dagli inglesi a fine ottocento in questa terra estrema del sud e  trasformato in un pilastro dell’identità argentina nel XX secolo. Se Martin Fierro, il poema epico di Jose Hernandez in strofe di ottonari, pubblicato nel 1872, viene riconosciuto come uno dei fondamenti del sentimento collettivo nazionale, attraverso la mitologia del gaucho -gli uomini a cavallo, pastori e nomadi, che solcano questi sterminati territori di frontiera. Tanto che i suoi primi versi si ritrovano persino in un brano dei Gotan Project del 2006 (La Viguela). L’altro aspetto riconosciuto di questa cultura latina è il tango, musica languida nata nelle bettole malfamate e nelle case di tolleranza, entrata nell’immaginario planetario con Carlos Gardel, cantante insuperabile, figura simbolica dell’anima argentina, apprezzato anche a Hollywood per eleganza e bravura, scomparso presto, nel 1935, in un incidente aereo.

Da  allora esistono un modo di ballare e un modo di giocare al futbol , tipico di Buenos Aires, quel calcio rioplatense basato sulla creatività individuale e sulla palla a terra contro disciplina e ordine razionale,  caratteristiche albioniche. Lo stile brioso, tecnico, poco difensivo che troverà la sua consacrazione nella  Maquina, la migliore squadra nella storia del calcio argentino, il River Plate degli anni 40, guidato da cinque attaccanti: Munoz, Moreno, Pedernera il divino, Loustau il ventilatore e Labruna il cattivo. «La macchina innalza al rango di arte ciò che gli argentini chiamano la nuestra, uno stile di gioco, un’arte di vivere che sarebbero tipicamente loro, una sinfonia collettiva eseguita da brillanti solisti, specchio di un’Argentina ideale e immaginaria».
Negli anni ’70, col ritorno al potere di Peron, che non ha mai amato il calcio ma l’ha sfruttato per consolidare il suo populismo autoritario, emerge l’antifutbol, quel gioco violento e psicologico, con priorità al pragmatismo, all’organizzazione e alla difesa, di un club della provincia, l’Estudiantes de la Plata, che si aggiudica tre coppe Libertadores di seguito. L’allenatore meticoloso e ossessivo si chiama Osvaldo Zubeldia  grande preparazione fisica, trappola del fuorigioco, falli tattici e gioco duro, tutto è ammesso per intimidire gli avversari (tanto che il difensore  Aguirre Suarez sconterà un mese di carcere dopo aver spaccato – inutilmente – la faccia al milanista Nestor Combin, in quanto traditore rinnegato – nato in Argentina ma con cittadinanza francese – nella finale intercontinentale). La sua brutalità riflette il caos e il terrore della società del tempo con governi militari che si susseguono fino alla vittoria nel Mundial 1978, Argentina-Olanda 3-1 con la famigerata scuola Esma delle migliaia di desaparecidos a poche centinaia di metri dal Monumental, lo stadio della finale.

In quella formazione non gioca ancora Diego l’acrobata, il ragazzino che tratta la palla come un’estensione del suo corpo, il prodigio Maradona in grado di fare tutto: un tiro impossibile, una finta che ti manda a terra, un passaggio cieco. Eccolo il pibe de oro, l’uomo dei miracoli, la speranza delle classi popolari, il funambolo e leader nato, il sindacalista attaccabrighe che tiene testa ai potenti.  La sua epopea tra Barcellona e Napoli, il club dove giocherà per sette anni facendogli vincere gli unici due scudetti e la coppa Uefa della sua storia, trova il culmine nel Mundial 1986 e in quel gol contro l’Inghilterra in semifinale, la rivincita per la guerra delle Falklands/Malvinas, passato agli annali come una gambeta, il dribbling cominciato a centrocampo saltando gli avversari come birilli e finito con un tiro nell’angolino, «il gol perfetto nella storia del paese». Perché aquilone cosmico? «Non lo so. Quell’espressione mi è venuta spontanea, ero andato completamente in tilt – dice il famoso telecronista Victor Hugo Morales. – «Aquilone perché Maradona è sgattaiolato per piú di sessanta metri, imprendibile, e la sua traiettoria era  impossibile da indovinare. Planava sullo stadio Azteca. E ciò che ha fatto era cosmico, extraterrestre, galattico, o sovrumano, come preferisce. Quel 22 giugno 1986 il geniale Maradona è passato nella sfera del divino».