Il lavoro tramite piattaforma digitale è un campo di battaglia. Prendiamo i rider, l’iceberg emerso di un continente ancora poco visibile dove lavoratori senza tutele arricchiscono i Leviatani della rete. Le loro lotte sono un fuoco di fila. E le risposte sono più dure ancora. In California Uber e le altre mega-aziende hanno finanziato un referendum vittorioso che ha rovesciato una legge dello Stato che riconosceva i ciclo-fattorini e gli autisti come dipendenti e non appaltatori. In Italia le piattaforme digitali della consegna del cibo a domicilio hanno firmato un contratto con il sindacato Ugl e impongono a più di ventimila rider in Italia di continuare a lavorare a cottimo, mentre ci sarebbe una legge che dice il contrario. Antonio Aloisi e Valerio De Stefano hanno pubblicato per Laterza Il tuo capo è un algoritmo (pp. 224, euro 18), un libro che permette di orientarsi in queste lotte e delinea un interessante piano politico e programmatico.

Partiamo dai rider in Italia. Con il contratto Assodelivery-Ugl, definito «pirata» dai sindacati, cosa bisogna fare per riconoscere i diritti e le tutele?
È una vicenda paradossale. Non esiste un paese sviluppato dove si possa imporre a tutti un contratto firmato da un sindacato la cui rappresentatività nel settore è minima, sotto minaccia di escludere chi dissente privandolo del lavoro. Il Ministero del lavoro ha reagito negando che il contratto sia abbastanza rappresentativo da poter disinnescare la legge che impone di parametrare il compenso ai contratti collettivi di settori affini, vietando il cottimo.
Bisogna anche ricordare che, per la Cassazione, i rider di Foodora erano etero-organizzati. Non si vede perché per i fattorini delle altre piattaforme dovrebbe valere un giudizio diverso. Per questo, in mancanza di un contratto collettivo idoneo, andrebbero tutelati come subordinati, salvaguardando i benefici del lavoro autonomo, come prevede la legge. Se Ugl agisse come un sindacato genuino, il minimo che dovrebbe fare è intimare alle piattaforme di non escludere i rider che non accettano il nuovo contratto. Nessun sindacato tollererebbe l’estromissione dei lavoratori dissenzienti. Si sfruttano alcune ambiguità sulla tutela collettiva dei lavoratori presunti autonomi. Ma non c’è una valida ragione perché le libertà sindacali degli autonomi siano inferiori a quelle dei dipendenti, secondo la Costituzione e il diritto internazionale. Speriamo che la nostra giurisprudenza se ne dimostri consapevole.

Dal punto di vista del diritto del lavoro, in che modo pensate sia necessario contrattare quello digitale dato che non tutto è assimilabile al subordinato, come accade per i rider o gli autisti di Uber?
Sindacalizzazione e divieto di discriminazione, prima di tutto. Bisognerebbe anche discutere di compensi minimi, pur se è difficile immaginare un meccanismo per fissarli. Persone da ogni parte del mondo competono per le stesse commesse: un compenso per noi infimo potrebbe essere «appetibile» per un lavoratore nel Sud del Mondo. Esistono meccanismi di tutela a transnazionali, per esempio nell’ambito dell’Unione Europea, che consentono di garantire standard minimi limitando la corsa al ribasso delle tutele. Pensiamo che vada fatto uno sforzo di questo tipo per il settore, ma la strada è lunga. In ogni caso, se è vero che non tutti i freelancer online sono subordinati, va ribadito che certi diritti fondamentali valgono anche per gli autonomi.

Oltre alle tutele nel rapporto di lavoro, ritenete necessario istituirne altre universali come un reddito di base per tutti i lavoratori poveri, non solo per quelli digitali?
Sì, pensiamo che vadano universalizzate alcune tutele e garantito l’accesso al reddito, muovendo gradualmente verso il reddito di base. Per farlo è necessario rimuovere le condizionalità del welfare che impongono di accettare impieghi i sottopagati, che drogano al ribasso il mercato del lavoro e soffocano la competitività. I meccanismi di controllo delle condizionalità costano molti denari, tra burocrazia e personale, sono opprimenti per i beneficiari e generano sussidi distorti anche per le imprese. In questa prospettiva il lavoro su piattaforma di scarsa qualità non va isolato. I lavori poveri, sottotutelati e che hanno alla base meccanismi di elusione normativa – come il falso lavoro autonomo o le finte cooperative – sono parte di un fenomeno vastissimo che va molto oltre e lo precede. Insomma, non è colpa dell’iPhone se abbiamo il lavoro precario.

Per quale ragione criticate il cosiddetto «reddito di cittadinanza» e in quale direzione dovrebbe evolvere?
Mischia misure di sostegno economico e politiche attive in modo confuso ed è basato ancora sull’idea della condizionalità. Così facendo si cade nella retorica di quelli che si battono contro gli «sdraiati sul divano», sbandierando un omaggio distorto alla dignità del lavoro. In realtà, forzare chi è in difficoltà ad accettare qualsiasi impiego pur di non morire di fame è il contrario del nostro modello costituzionale.

Nella pandemia in tutto il mondo lo smart working è esploso. Quali sono le insidie?
Nonostante le troppe, dissennate resistenze, il lavoro da casa è anche uno strumento per «appiattire la curva» dei contagi, limitando gli spostamenti non indispensabili. Si tratta di una pratica riservata alle professioni impiegatizie, certo, ma i benefici si estendono indirettamente anche ai quei lavoratori le cui attività «essenziali» non sono remotizzabili. I primi dati confermano che produttività e soddisfazione sono cresciuti nonostante i disagi. È spesso emersa l’incapacità di molti manager di adattarsi a una cultura organizzativa tarata su progetti e consegne. La logica del presenzialismo tossico si è trasferita dall’open space al tinello. È anche esplosa la richiesta di piattaforme «collaborative» piegate alle esigenze di una sorveglianza soffocante dalla rendicontazione al millimetro fino alle telefonate di controllo, a scapito dell’efficienza. Non solo, molti lavoratori hanno assistito a una dilatazione dei tempi di lavoro. Anche ora, districarsi tra obblighi di cura, isolamenti volontari o forzati e impegni professionali mette a dura prova le categorie vulnerabili. Rispetto al modello ideale, mancano due elementi chiave: volontarietà della scelta e alternanza tra sede e altri spazi. Non bisogna però sprecare l’occasione per disegnare flussi e ruoli dinamici, negoziando remunerazioni che tengano conto dei risultati, zone franche senza riunioni e strumentazioni che garantiscano riservatezza, protezione dei dati e cybersicurezza. L’obiettivo è passare da un regime di sospetto a uno di autonomia e collaborazione, investendo in responsabilizzazione e fiducia.

Cosa rispondete a chi crede che il lavoro è finito e sarà sostituito dall’automazione digitale?
Magari! Battute a parte, nell’attesa che arrivino i robot a spazzare via tute blu e colletti bianchi assistiamo al tentativo di usare questo feticcio – smentito ormai unanimemente – per accelerare un processo di svalutazione del contributo umano e di erosione delle tutele. La tecnologia non è neutra. Il suo impiego nell’organizzare il lavoro su piattaforma è fonte di abusi.
Nel mezzo della pandemia, molti fanatici del soluzionismo tech si sono avventurati a ricordarci che «le macchine non si ammalano». Eppure, abbiamo tutti potuto verificare come dietro la facciata scintillante di molti modelli produttivi operi un esercito quasi invisibile di lavoratori in carne e ossa il cui contributo è poco valorizzato, ma insostituibile. Per due motivi. Da un lato, molta innovazione «al consumatore» è ancora disfunzionale e ha bisogno di costanti aggiustamenti.
Dall’altro, purtroppo il lavoro precario è spesso più conveniente di un serio investimento in nuove tecnologie che liberino le energie e semplifichino i processi. Per ora ci tocca una versione troppo fanfarona dell’innovazione, soprattutto in alcuni settori in cui di automazione non c’è traccia, mentre invece prevale il lavoro povero e sottoprotetto. La fine del lavoro è rimandata a data da destinarsi.