C’era una famosa vignetta di Snoopy che mostrava l’intramontabile bracchetto che, camminando sconsolato verso una meta imprecisata, portava appeso un cartello con su scritto: «Non seguitemi! Mi sono perso anch’io». Viene da pensare a quella situazione surreale nel vedere come ci si riduce a voler ostinatamente seguire sulla via delle riforme chi si è già perso da tempo. Se è vero che il Governo ha inserito nel suo Ddl sulla riforma del processo una soltanto delle straordinarie idee partorite dai lavori della Commissione Gratteri, quella sul «processo a distanza», c’è da chiedersi in base a quale criterio (simbolico,economicistico, darwiniano?) si sia operata una simile scelta residuale.

I fatti recenti di Mafia Capitale dimostrano in maniera emblematica che fine possono fare le riforme del processo penale quando esse siano fondate non sui valori e sui principi del giusto processo, sulle sue regole e sulle sue garanzie, ma sul piano di una sfida ispirata ad un efficientismo velleitario, che mette sul medesimo piano lo schermo di un televisore e la dignità della persona. Che risparmia sui pochi spiccioli di una traduzione e dilapida invece centinaia di milioni per ingiuste detenzioni ed altri rimedi riparatori. E dimostrano che è dunque giusto portare la protesta dell’avvocatura a livello nazionale, chiedendo al Parlamento di non approvare quella riforma. A seguire simili prospettive di falsa efficienza ci si perde in un vuoto meandro di contraddizioni.

Il Tribunale di Roma ha fatto una vistosa marcia indietro sull’uso esteso e generalizzato della «videoconferenza», dimostrando con ciò che le proteste dei penalisti non erano né pretestuose, né strumentali e tantomeno infondate. E dimostrando soprattutto che questo nuovo circuito mediatico-giudiziario tende sempre più a valorizzare un sistema nel quale è il processo stesso, con la sua carica simbolica, con i suoi nomi evocativi (Mafia Capitale, Aemilia, Dama Nera ), con la anticipazione e diffusione di veri e propri spot pubblicitari su arresti in diretta, intercettazioni, ambientali, video e sequestri, ad imporre metodi autoritari e pianificazioni securitarie, prescindendo del tutto dalla effettiva pericolosità dei singoli imputati.

Avviluppati da questo pericoloso trend che rischia sempre più di sostituire il processo alla sua “rappresentazione”, dimentichiamo che il nostro sistema processuale conosce già gli strumenti per contemperare la sicurezza e l’umanità, la speditezza e la ponderatezza. Smarriamo l’idea che, in un sistema moderno e democratico, deve essere in ogni caso garantito il primato della giurisdizione su ogni altra esigenza organizzativa ed amministrativa. Il processo inteso come lotta ai fenomeni criminali e non come accertamento della responsabilità dei singoli, conduce su di un binario morto, e non solo è destinato a fallire come possibile strumento di trasformazione e di palingenesi, ma rischia – come è sotto gli oggi di tutti – di provocare gravi squilibri istituzionali e di produrre profonde ferite nel tessuto sociale e democratico di un Paese.

Chi ha inteso imprimere alla riforma del processo penale, con irragionevoli e sbrigative idee dal sapore autoritario e paternalistico, una simile svolta, si convinca di aver intrapreso una strada sbagliata che ci allontana dalla modernità anziché perseguirla. Rimediti sulla complessità e sulla ricchezza dell’esperienza della giurisdizione e comprenda che la semplificazione non sempre è un valore. Ammettano tutti che l’esperienza della Commissione Gratteri si è esaurita, si è persa nel suo stesso tentativo di inseguire una improbabile virtù tecnocratica, e che il suo, sia pur limitato, recupero postumo è stato un errore. Che il Parlamento si fermi e smetta di seguire chi si è perso da tempo…

* Segretario Unione camere penali italiane