E’ un diffuso luogo comune riferirsi alla letteratura greca antica con il linguaggio figurato del naufragio, e constatare con rammarico l’immane rapina, ad opera del tempo, di tradizioni orali e folkloriche, di testi in versi o in prosa, di autori e musiche. Ed è già questo un modo per delimitare i confini di quel sapere, a partire dai programmi scolastico-ministeriali. Sulle ragioni non meccaniche della cancellazione irreversibile di gran parte di esso, ragiona un denso libro a più mani, a cura di Andrea Ercolani: La letteratura sommersa nella Grecia antica. Nuove prospettive storico-letterarie (Carocci, pp. 180, € 17,00). Il volume prende le mosse da tre raccolte maggiori dedicate alla Submerged Literature (De Gruyter, 2014-2016) e si propone come sintesi intorno ai processi di selezione di modelli e testi e alle loro occasioni di fruizione. La citazione in esergo, dalla Prefazione a I Malavoglia, conferma la metaforologia marina («altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati») ed esplicita l’intento di una restituzione memoriale, storica e critica del ‘sommerso’.

Sarà da risolvere subito un problema definitorio: «per il periodo arcaico e classico vanno considerati come sommersi i testi non legati a un’occasione pubblica istituzionale; i testi la cui occasione non è perdurata nel tempo (perdita di rilevanza collettiva); i testi su cui le istituzioni non hanno investito» (p. 32). La rete che sondi questo variegato fondale va ad agganciare temi capitali: la formazione del canone, il ruolo della selezione scolastica, le geografie della letteratura – compresa quella ‘popolare’ – e il rapporto tra aree di produzione; le opzioni pubbliche e private di controllo e filtro su autori e testi. I saggi si mettono quindi sulla traccia di forme letterarie trascurate e rese invisibili, tradizioni mitografiche periferiche e perdenti rispetto a quelle considerate canoniche ‘al centro’ (Atene in particolare), identità autoriali iscritte all’infinita lista degli ignoti. Pur non dichiarato e forse involontario, viene da pensare a un debito metodologico nei confronti delle Annales, e all’attenzione della microstoria per i ‘piccoli eventi’ di uomini dimenticati. Ne deriva in ogni caso una contro-selezione che esclude la trattazione di testi e figure canonici, in apparente contrasto con l’uso frequentissimo, nel libro, proprio del termine ‘canone’.

Più trasparente è l’appartenenza militante alla scuola di Luigi Enrico Rossi, che aveva anticipato l’idea in un saggio del 2000: «con letteratura “sommersa” io intendo (…) testi maltrattati fin dal primissimo inizio della trasmissione, o anche testi che non hanno avuto alcuna trasmissione affatto. (…) le varie comunità non avevano alcun interesse a conservarli» o – come nel caso dei testi legati ai Misteri – avevano «interesse a nasconderli o addirittura a sopprimerli» (forse non per caso nel 2022 i seminari della Sapienza annualmente dedicati al Maestro si sono concentrati sulla cancel culture). ‘Sommersione’ è distinta da ‘perdita’: l’interruzione involontaria della catena di copiatura o l’imprevista distruzione dei manoscritti sono indipendenti da una pianificata volontà di salvaguardia/cancellazione, determinata da fattori che vanno indagati per sé. Il libro ci porta allora nel dettaglio di singoli episodi: i confini del canone – specie quello alessandrino –, l’epica locale (vi si evidenzia la ‘sommersione’ dei poemi su Eracle e l’emersione del ciclo troiano), la poesia popolare e simposiale, la perdita della musica, gli spettacoli negli spazi sacri e quelli del comico extra-canonico (i mimi, ad esempio); ognuno di questi case studies è appropriatamente ricollocato sotto i riflettori dell’influenza esercitata dai gruppi sociali e calato nella dialettica centro-periferia.

Abituati come siamo a partire da una letteratura intesa come testo, la sensazione che a volte si prova, percorrendo La letteratura sommersa e cercando di decifrare un ‘libro assente’, è simile e speculare rispetto a quella del custode della biblioteca che, in una poesia di Borges, non ha mai imparato a leggere. Altrimenti detto: come sfogliare le pagine di una letteratura che non c’è più? Questi saggi aprono in realtà piste feconde anche sul ‘salvato’. Un caso speciale è costituito da corpora trasmessi sotto un nome unico (le elegie simposiali di Teognide), o ricostruiti ex post (le edizioni di Saffo, Alceo e altri); sono tutti testi autoriali? All’uscita di una corposa edizione commentata di Stesicoro (Davies-Finglass, 2014), un recensore raccomandava un giusto caveat sull’autenticità di alcuni frammenti, non in quanto falsi ma in quanto non suoi. È a volte difficile chiarire quanta e quale poesia lirica arcaica nelle secolari fasi di trasmissione sia approdata a collezioni tramandate sotto un ‘nome professionale’. Specialmente per la produzione da simposio: la raccolta che attribuiamo ad Alceo conserverebbe testi «di Alceo e anche dei suoi compagni di eteria, e sarebbe il prodotto non di un autore unico, ma dell’ambiente di Alceo», «uno dei vari autori (…) emerso sommergendo gli altri» (qualcosa di analogo accade per la raccolta di orazioni di Lisia).

L’ipotesi che nei corpora antichi e nelle edizioni moderne alloggino testi non d’autore ha conseguenze rilevanti per la demarcazione del canone. Se dopo Barthes è stata da più parti celebrata la ‘morte dell’autore’, nessuna delle firme del volume si abbandona a derive strutturaliste, né emerge l’intento di obliterare l’autorialità a vantaggio di un’esclusiva ‘centralità testuale’; mi pare che questa prospettiva di lettura trovi il suo fuoco altrove, e cioè nell’analisi dei sistemi di comunicazione letteraria e nel ruolo riconosciuto alla trasmissione orale/aurale in epoca arcaica e classica. Oltre al simposio, anche i carmi popolari, i canti di lavoro, la lirica corale e monodica, il teatro rituale nei santuari e gli spettacoli del riso, quel poco che sappiamo sulle ninne-nanne, le improvvisazioni musicali e via elencando, si accreditavano quotidianamente grazie all’occasione, più che in virtù di una firma autoriale.
Proviamo ad applicare a Saffo la stessa griglia ermeneutica; l’ultima parte delle edizioni antiche e moderne, il ‘libro degli epitalami’ (il nono), risponderebbe a un criterio tematico e contiene mutili canti di nozze. Al netto dei cliché di genere (elogio e motteggio degli sposi), alcuni hanno caratteristiche non per forza ascrivibili a una tradizione autoriale. «Su, in alto l’architrave / – o imeneo – / alzate, carpentieri / – o imeneo – / arriva lo sposo ed è uguale ad Ares / – o imeneo – / molto più grande di un uomo grande / – o imeneo –» (fr. 111 V.): il tono della canzoncina è popolareggiante, scherzoso, iperbolico, la struttura con refrain è elementare. Qual è il contributo della Musa di Lesbo e quanto appartiene a una paradosi di canti standardizzati? Ben prima del canone e indipendentemente da esso, esisteva un repertorio di testi replicabili con poche variazioni e assimilabili sul piano della lingua, del metro e delle formule: dall’epica alle ninne-nanne, ai lamenti funebri, dai componimenti per il simposio agli inni. Questo «mondo sommerso di canti» è sempre da ricondurre all’occasione: «il genere deve essere affrontato e definito da una prospettiva basata su una performance in situazioni di vita reale» (p. 20). A più riprese viene ribadito che testi e generi sono il ‘prodotto’ culturale di un’esecuzione, ed è l’occasione a suggerire un’elaborazione che risponda alle regole sociali e formali previste, in privato e nella sfera pubblica.

Chiudo allora il cerchio del ragionamento: se molto di questo materiale è di repertorio, si assomiglia e si ripete, c’è da chiedersi se una congenita vocazione alla ripetitività non implichi più alti rischi di perdita. Possediamo liste della spesa e ricette, ma non i nomi dei tantissimi autori di ditirambi attivi ad Atene nel V secolo a.C., benché si tratti di un genere corale istituzionalizzato dalle feste pubbliche e in grado di coinvolgere ogni anno masse di cittadini. E quasi nulla abbiamo dei canti cultuali intonati nei santuari di tutta la Grecia: forte della sua riproducibilità, il textual event non implica che un repertorio seriale si trasformi in un testo scritto; si salva però la produzione legata a un nome distintivo e differenziante (Pindaro, Eschilo, lo stesso ‘Omero’), selezionabile da committenti di prestigio o da un’élite politica dentro un preciso progetto culturale, come accade con la consacrazione dei tre tragici. Non sempre l’occasione performativa si configura come fattore di conservazione.

Autori scomparsi o transumati sotto l’egida di altri, generi evanescenti, tradizioni mitiche locali soccombenti sotto il peso di esigenze di propaganda o in virtù della forza del centro (Atene, Sparta, più tardi Alessandria), un’articolata produzione popolare di cui restano pochi frammenti… ci si potrà chiedere, una volta di più, se sia ripristinabile un simile canone naufragato. Questo libro propone in modo intelligente una risposta affermativa, e invita a considerare addirittura necessario il (parziale) restauro, quando si comprenda che «ricostruire il sommerso aiuta a capire l’emerso». Così da evitare che una cultura ormai da secoli alle nostre spalle sia ancora in grado di attivare – ma stavolta con la nostra complicità – ulteriori processi di cancellazione.