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Non ne ha parlato nessuno (giuro)

Mi rendo conto di partecipare al gioco voluto dai radicali, far parlare di loro, però due parole sul fallito referendum «trasporto pubblico romano» mi va di dirle. Prima i numeri: […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 15 novembre 2018

Mi rendo conto di partecipare al gioco voluto dai radicali, far parlare di loro, però due parole sul fallito referendum «trasporto pubblico romano» mi va di dirle. Prima i numeri: 16,4% di votanti, 74% per il sì, il resto per il no.

A chi non è del tutto sprovvisto di antenne politiche è apparso del tutto evidente che si trattasse di una chiamata alle urne strumentale: legittima, e magari si andasse a votare tutti i giorni, però strumentale. Immagino la riunione a via di Torre Argentina, o a casa di qualcuno di loro.

«Dobbiamo molestare la gestione di quei cialtroni del Campidoglio, come facciamo? Un referendum?». Aborto: fatto. Divorzio: fatto. Acqua: cavolo, lì ci hanno fregato, sono stati più bravi.

«Trovato: i rifiuti. Roma è piena di monnezza, non c’è chi non abbia il dente avvelenato». Il principio è giusto e passa, però che fai, chiami i romani a parlare di rumenta? «Dài, fa schifo, puzza, abbiamo anche un’immagine da difendere e che facciamo, rovistiamo nei cassonetti?».

Sempre il trovatore di prima: «Be’, c’è il trasporto pubblico. Ci sono in giro gli adesivi Atac nun te merita, stanno attaccati ai pali, tutti odiano Atac, prendiamocela con lei». Detto, fatto: via ai banchetti, volontari a costo zero, ti pare che non rimediamo firme.
Una volta raggiunte le firme inizia il martellamento su ogni giornale che tiri più di 100 copie: «Nessuno ne parla, ci stanno boicottando», e via a parlarne, ché neanche il social media manager di Salvini è così efficace. Nelle ultime due settimane agli aperitivi non si parlava d’altro, ma – absit iniuria verbis – persino sulle banchine della metro che frequento non spesso ma regolarmente. Ne ho sentito parlare persino sul 664 che porta a casa dei miei genitori. In che termini? «Nessuno ne parla, ti rendi conto?», e giù a parlarne, manco fossero vaccini.

C’è un alimentari – a Roma si dice pizzicarolo – qui sotto casa dove noi indigeni usiamo incontrarci a fine giornata. «Nessuno ne parla, ma ti rendi conto?», per l’ennesima volta. Finalmente mi scoccio e faccio un richiamo generale: «Oh, ma voi sapete del referendum?». Il 100% dei sì, una ventina scarsa di persone. Non chiedo le intenzioni di voto e mi ritengo soddisfatto. Però si volta uno, masticando un panino e bofonchia «ma è consultivo, tempo perso». Un’altra, col bicchiere in mano: «E’ una fregatura, arriva il privato e aumenta il biglietto con gli stessi autobus».

Nelle ultime settimane a Roma – calcio a parte – non si parlava d’altro. Ma a votare non ci è andato nessuno.
Nota a margine 1: il capo radicale, in un giorno in cui sembrava che le cose gli stessero andando bene, proclama «se raggiungiamo il quorum potrei candidarmi a sindaco». Voce dal sen fuggita. Nota 2: una decina di società sarebbero interessate al business: diverse italiane (una nazionale, le altre locali), almeno due estere (francese e anglotedesca). Nota 3: il possibile bando andava spacchettato in vari lotti; immagino che in periferia sarebbero andati deserti (e infatti in periferia i votanti erano lo 0 virgola), tutti si sarebbero avventati sul centro città, il vero affare.

Sui miei canali social tutto un litigare. Uno ha scritto: «Il tpl è un servizio che il pubblico esercita anche in perdita perché i ritorni positivi (socialità, sanità, decongestionamento delle strade) sono un guadagno non a bilancio. Il privato se ne frega perché non ci guadagna, e se va male ciuccia dalla mammella pubblica».

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