In politica estera è fondamentale comprendere le «ragioni dell’altro». E nella crisi ucraina le ragioni dell’altro – ossia di Mosca – sono di un’evidenza palmare. L’Ucraina è la culla medievale del popolo dei Rus’; è lì che nacque la nazione russa; non esiste una frontiera naturale che separi i due Stati, accomunati dalla stessa cultura, dalla stessa religione e da una lingua sorella. A ragione Dostoevskij definiva l’ucraino Gogol il padre della letteratura russa.

Come si può credere che dopo il collasso sovietico Mosca avrebbe accettato l’espansione dell’Alleanza Atlantica fino a incidere il «ventre molle» della Russia? E poi, quanto dista Kiev dall’Atlantico? Quanto da Mosca? L’avrebbe capito anche un bambino. Ma non gli Stati uniti, forse perché storia e geografia non facevano parte del bagaglio politico dell’allora potenza egemone, accecata com’era dal trionfo sul comunismo.
Dunque la Nato a guida americana – una volta inglobati gli Stati appartenenti un tempo al Patto di Varsavia – si mise a vellicare il «ventre molle» della Russia.

Nella dichiarazione finale del Vertice della Nato a Bucarest, tenutosi nell’aprile 2008, fu inserita la frase seguente (paragrafo 23): «La Nato accoglie con favore le aspirazioni euro-atlantiche dell’Ucraina e della Georgia di farne parte. Oggi abbiamo convenuto che questi due Paesi diventeranno membri della Nato». Era stato il presidente Bush a pretendere di inserire nel testo finale questa formula impegnativa, contro le resistenze degli europei. Se oggi l’Ucraina fosse nella Nato, forse saremmo già in guerra: l’art. 5 del Patto Atlantico, infatti, ci obbliga a soccorrere militarmente ogni suo membro aggredito; e non sarebbe difficile definire atti di aggressione l’offensiva russa nel Donbass e l’annessione della Crimea.

La conferenza di Bucarest del 2008 fu molto più che l’usuale incontro annuale della Nato. Vi parteciparono ben 48 capi di Stato o di Governo, incluso Putin, perché a latere del Consiglio Nato si teneva anche il Consiglio Nato-Russia e la riunione del Partenariato per la Pace.
Fu davanti a questa platea che Putin venne umiliato dall’invito a Georgia e Ucraina di entrare nella Nato. Ecco perché nell’agosto successivo Mosca reagì duramente al tentativo dello scriteriato presidente georgiano Saakashvili di riprendersi con la forza l’Ossezia del Sud. Ecco perché nel 2014 Putin passò alle vie di fatto in Crimea e nel Donbass, territori abitati da moltissimi russi.

Anche gli Usa e la Nato hanno reagito, armando l’Ucraina di mezzi difensivi (fra cui i missili anti-carro Javelin) e inviando un corpo di consiglieri militari. I quali, però, hanno ammesso che in caso di massiccia offensiva russa la difesa crollerebbe in poche ore. Lo stesso generale Budanov, capo dell’intelligence militare a Kiev, ha dichiarato: «Dobbiamo essere obiettivi. Senza l’intervento di forze occidentali non ci sarebbero risorse sufficienti a respingere un attacco russo a tutto campo. Potremo resistere finché avremo pallottole. Ma credetemi: senza riserve esterne nessun esercito al mondo resisterebbe a un tale attacco».

Come disinnescare la miccia? Putin ha tracciato una «linea rossa»: mai l’Ucraina nella Nato. Anche l’Occidente ha una sua «linea rossa»: mai l’Ucraina inglobata dalla Russia. Che fare allora? La storia recente ci offre l’esempio della Finlandia. Granducato dell’impero zarista nell’Ottocento, ottenne da Lenin l’indipendenza. Ma durante la Seconda guerra mondiale i finlandesi affrontarono un durissimo scontro l’allora Unione sovietica, da cui uscirono cedendo quella parte della Carelia (23.000 kmq, inclusa la città di Viipuri) che si trovava «troppo» vicina a San Pietroburgo. Furono sfollati verso Helsinki 400.000 careli, quasi tutti non russi. A me capitò di andare in Finlandia nel 1959, in tempo per assistere al ricollocamento dei profughi e alle scene di famiglie divise che si salutavano da un lato all’altro del confine, ormai invalicabile.

La Finlandia riottenne la piena indipendenza in cambio della neutralità. Il fatto di esser rimasta fuori dalla Nato, in quanto «neutralizzata», non sembra aver nociuto alla Finlandia. Nel 1959 avevo trovato un Paese che stava appena uscendo dalla povertà. Oggi, con un reddito pro capite attorno ai 50.000 dollari, è entrato nella categoria dei Paesi ultra-ricchi, ed è classificato fra i più pacifici, competitivi e con la più alta qualità della vita al mondo. Sarebbe così inaccettabile, per l’Occidente e per la Russia, l’idea di «finlandizzare» l’Ucraina?