Un féminisme décolonial, l’ultima opera di Françoise Vergès è stata pubblicata poco più di un mese fa presso le Éditions de la Fabrique di Parigi (pp. 142, euro 12). La politologa e militante francese ripercorre la storia dei legami tra un certo tipo di femminismo mainstream, il colonialismo e i sistemi razzisti proponendo un’apertura nei confronti di quello che lei definisce un «femminismo decoloniale».
Nella sua analisi Françoise Vergès parte dall’assunto innegabile che a partire dal XVIII secolo la storia del femminismo occidentale sia stato un fruttuoso susseguirsi di vittorie nel campo della rivendicazione dei diritti individuali delle donne. La storica precisa tuttavia che queste vittorie, fondate sullo sradicamento delle disparità uomo-donna, hanno sottovalutato e in certi contesti ignorato le esperienze di dominazione che esistono tra le donne stesse.
Una serie di esempi tratti dalla storia francese (ma non solo), rivelanti il diniego di tali esperienze da parte di quel femminismo che lei chiama civilisationnel, convincono che altri sguardi siano possibili. A fronte di un femminismo portatore della «missione civilizzatrice» del Nord colonizzatore, Vergès mostra gli aspetti dirompenti di un posizionamento «decoloniale» in grado di opporsi a quel patriarcato radicatissimo che è profondamente saldato al sistema capitalista (a sua volta storicamente innervato allo schiavismo) e al neoliberismo.
Per non perpetuare un sistema di sfruttamento di stampo imperialista e per combattere le derive razziste e neofasciste, i femminismi contemporanei dovrebbero farsi carico di rivelare i legami intrinsechi tra il capitalismo e il perdurante sfruttamento su basi razziali. Il rischio è altrimenti di «chiudersi» nei recinti d’opacità dell’ideologia neo imperialista e di nutrirla, pur inconsapevolmente.
Il femminismo decoloniale è necessariamente anticapitalista e lega le disuguaglianze di genere e le disuguaglianze razziali al sistema capitalista. Secondo Françoise Vergès non ci si dovrebbe definire femministe senza interessarsi alle questioni ambientali, allo sfruttamento, alla vulnerabilità di classe e al razzismo. Non ci si dovrebbe definire tali senza operare in maniera condivisa con altri movimenti politici e sociali favorevoli alla decostruzione di questo sistema.
Essere femministe decoloniali significa allora combattere contro il femminicidio ma anche per il diritto dei popoli indigeni alla terra; significa trovare connessioni tra le esperienze radicate in diverse parti del mondo e riscrivere le strutture in cui i nostri mondi sono pensati.
Di tutto ciò ci ha parlato Françoise Vergès, accogliendoci nella sua casa nel quartiere della Bastiglia di Parigi e rispondendoci in merito alla lotta, ai suoi aspetti plurali e di condivisione.

La prefazione del suo ultimo libro è intitolata «Invisibile, loro “lavorano la città”» (con un’ambiguità voluta nel significato del verbo: «lavorare» ma anche «aprire»). Invece d’introdurre teoricamente il suo lavoro, ha scelto di rendere visibile la lotta e la vittoria di donne razzizzate e sfruttate a seguito di 48 giorni di sciopero. Si tratta delle addette alle pulizie della ditta H. Reinier-Onet, che la Snfc subappalta per la pulizia della Gare du Nord. Da dove proviene questa volontà d’invisibilizzazione? Chi sono gli agenti?
Ho scelto di iniziare il mio libro con la narrazione di un’esperienza che si calasse nel concreto delle vite delle donne. L’invisibilizzazione delle donne delle pulizie è un fenomeno che io non stento a definire volontario: esso è perpetuato sia perché si tratta di lavoro femminile, sia perché è per la quasi totalità svolto da donne razzizzate e sfruttate. Dietro un’apparente esigenza di praticità, è svolto in momenti diversi rispetto al resto del lavoro produttivo o delle attività che si svolgono nei luoghi in questione.
Si desidera mascherare la presenza di queste donne. La mattina tutto è magicamente pulito, resettato e non ci si deve chiedere chi l’abbia fatto, in che momento (spesso si tratta di mansioni svolte di notte) e in che condizioni. Il sistema capitalista è interessato a celare i corpi delle vittime di questa economia dello «sfinimento».
Desidero aggiungere poi che se lo sfinimento si inscrive nell’idea valorizzata di uno stress costante capace di generare performance sempre migliori, lo sfinimento di queste donne non ha neppure questo «valore» di facciata: deve restare totalmente invisibile.

Il titolo del suo libro è diviso tra «femminismo» e «decoloniale». Come si sono riconciliati i due termini e in quali contesti storici e ideologici le è sembrato di ravvisare questa alleanza?
Il femminismo è come un grande e bel contenitore, che nel tempo è stato riempito di oggetti che non sarebbero dovuti entrarvi (mi riferisco all’appropriazione del termine, che considero decisamente illecita, da parte della destra liberista). Il femminismo di cui ho voluto parlare nel mio libro è quello che desidera fuggire la dimensione neoliberale per aprirsi a quella decoloniale. Con questo termine intendo riferirmi per opposizione a quella che in America Latina è definita la «colonialità»: quella del potere si riferisce a un «regime di potere» che emerge nei tempi moderni con la colonizzazione e l’avvento del capitalismo. Ciò non si conclude con il processo di decolonizzazione negli anni Cinquanta-Sessanta, esso continua a organizzare le relazioni sociali degli attuali poteri nel sistema mondiale. Il concetto di colonialità del potere nasce negli anni Novanta del secolo scorso e rivela il sistema di rapporti di forza tra uno stato su una sua ex colonia, rivela la perpetuazione ideologica della distinzione tra il nord e il sud del mondo, rivela il permanere del razzismo di stato e del sessismo strutturale.
Decolonizzare non significa solamente lottare per l’abbandono del territorio da parte dello stato colonizzatore, bensì l’abbandono della sua sfera d’influenza economico-politica. Anche «decolonizzare il sé», come diceva Frantz Fanon, ne fa parte. È necessario rendersi conto infatti che il presente che abitiamo non è ancora interamente uscito dalla colonialità, che continua a opprimere soprattutto le donne razzizzate in Europa e nel mondo.

Nel suo libro lei spiega in maniera ampia il fenomeno dell’oblio o piuttosto della negazione sistematica di un certo femminismo bianco e borghese su questioni che sono tutt’altro che irrilevanti. Pensa che sia possibile che i nuovi femminismi possano riacquistare il respiro ampio dei movimenti di giustizia sociale e essere in grado di difendersi contro l’assalto dei nuovi fascismi?
Spesso quando si pensa al femminismo si pensa ai movimenti di liberazione europei, senza considerare i movimenti di donne sorti in Argentina, Brasile, El Salvador, Cile, India e altri. Quelli sudamericani ebbero grande rilevanza nelle lotte contro le dittature militari. Pensiamo al Black Feminism statunitense degli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso; la lotta non era condotta solo contro la dominazione maschile della comunità d’appartenenza, ma più diffusamente contro lo Stato. In epoca odierna le eredi del femminismo proveniente dal sud del mondo stanno coltivando questi femminismi la cui evoluzione e diffusione è diventata capillare e di ampia portata; se accettassimo di ascoltare queste militanti capiremmo che ci sono offerte visioni rivoluzionarie e prospettive nuove e che la lotta contro il capitalismo mondiale sta crescendo proprio in quegli stati in cui l’economia locale e il territorio sono stati devastati.

Può spiegarci perché pensa che il termine «femminismo multidimensionale» possa integrare il femminismo «intersezionale» e che anzi sia preferibile a quest’ultimo?
Non so dirle se sia preferibile, tuttavia so di per certo che lo possa integrare, dato che la sua prospettiva è più ampia e prende in considerazione non solo il genere, la razza e la classe. Ci sono prospettive anche al di fuori di queste categorie: quelle delle nuove tecnologie, quelle che considerano la rapidità delle scoperte scientifiche e i suoi risvolti etici, quelle talmente urgenti dei problemi ambientali e altre ancora. La sfida del femminismo multidimensionale consiste nell’allargare i campi d’analisi, di cercare di ricomporre i tasselli di un quadro globale e di uscire per una buona volta dalla dimensione nazionale. Una prospettiva transnazionale non significa però dimenticare quella locale, significa essere capaci di riconoscerla in una panoramica d’insieme.