Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci. Due studenti che non erano a scuola, e non erano lavoratori, morti su un lavoro che non era un lavoro nelle ultime tre settimane. Questo atroce paradosso è uno degli esiti della trasformazione della scuola in un’istituzione del capitale disumano. I penosi balbettamenti davanti a queste tragedie intollerabili insistono su una distinzione pensata per confondere il dibattito e neutralizzare la vibrante protesta degli studenti che vogliono abolire l’alternanza scuola-lavoro. Gli stessi chiedono una radicale trasformazione della formazione professionale che prevede il ripensamento di un intero sistema, a cominciare dal mercato del lavoro. Nulla di meno, perché altrimenti la formazione professionale resterebbe uno strumento che ha limitato in maniera importante la componente culturale e quella laboratoriale interna e ha dato sempre più spazio alla formazione del precariato, all’insicurezza e alla violenza in azienda e nella società. E invece sì ripete, a cominciare dal ministro dell’istruzione Bianchi e da quello del lavoro Orlando, che la formazione professionale ispirata a una malintesa subalternità al sistema tedesco non è l’alternanza scuola-lavoro.

Ma buongiorno! Chi critica la scuola del capitale disumano non ha fatto questa confusione. Semmai l’hanno fatta loro o i media, e non solo per esigenze di sintesi. Oggi si usa questa espressione e la si intende come la parte per il tutto. La confusione, fatta ad arte o meno, può essere dunque intesa anche come un sintomo. Quando ci si riferisce all’“alternanza scuola lavoro (ribattezzata con un acronimo che suona come uno sputo: Pcto, cioè “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento”) ci si può riferire alle politiche che hanno mutato l’istruzione nell’obbedienza a un principio morale funzionale all’occupazione precarizzata. L’alternanza scuola lavoro, ovvero l’insieme dei progetti, degli stage e dei tirocini in tutte le scuole è la traduzione di un disegno che trasforma gli studenti dai 16 ai 19 anni in occupabili. Questo concetto, ricorrente oggi nelle teorie neoliberali del mercato del lavoro, è stato adattato agli studenti. Oggi è il principio di soggettivazione al quale sono disciplinati in un sistema che trasforma la forza lavoro in potenza in manodopera disponibile a farsi concava e convessa in impieghi accessori, occasionali, servili – i «lavori di merda» (Bullshit jobs) di cui parlava David Graeber – caratteristici di un’economia terziarizzata povera.

Agli studenti questa realtà è nota. La vivono i padri, le madri, le sorelle e i fratelli, milioni di persone. Per questa ragione si oppongono a un mondo orrendo che non considerano giunto alla fine come ritengono gli esteti dell’apocalisse, né irreversibile come auspicano gli evangelisti del realismo capitalista. Senza contare che trovano intollerabile il fatto che esistano adulti che pretendono di manipolare la loro esistenza e guidarla verso un’attività che impone un’educazione al rischio totale. Questa è la prerogativa della cittadinanza attuale dove si può morire non solo per lavoro, ma anche per studio. C’è da auspicare che quella degli studenti diventi un’insurrezione. Che i loro docenti, i presidi, il personale amministrativo e i genitori si costituiscano in forza di interposizione contro chi considera il rischio della morte per lavoro e per studio come un sacrificio in nome della «crescita». E, così facendo, chiariscano un fatto che dovrebbe essere evidente, eppure si fa fatica a comprendere. In queste condizioni non esiste un’alternanza scuola-lavoro «etica» né l’obbligo a farla comunque e a ogni costo in nome dell’occupabilità. A chi invece disprezza l’esigenza di una scuola che forma soggettività autonome, critiche e capaci di resistere con un «No» ai ricatti dello Stato e delle imprese andrebbe ricordato che rischia di giustificare un modello che contempla anche la possibilità della morte. Questo non è un paese per aspiranti martiri.