Non è sogno, il nuovo film di Giovanni Cioni, è stato presentato nel Fuori Concorso del Festival Internazionale di Locarno riscuotendo un buon successo di pubblico e di critica, difficile da prevedere per un’opera irregolare e fuori canone come è tutto il cinema del regista toscano. Cioni, nato a Parigi, cresciuto a Bruxelles, tornato a vivere, già uomo maturo, sull’Appennino tosco-emiliano dopo esser passato da Lisbona e Napoli, lanciato un decennio fa dal Festival dei Popoli di Firenze e ormai salito agli onori dei festival di mezzo mondo, ha lo stile unico, forte e immediatamente riconoscibile che è solo degli artisti, degli autori veri, di chi non cerca una strada qualunque ma trova ogni volta un modo diverso di percorrere la sua propria via.
Come in quasi tutti i suoi precedenti lavori, anche in questo nuovo film all’origine c’è il fattore umano, l’incontro, la relazione, lo stupore e la necessità di raccontare l’altro. C’è un’idea di documentario che non ha nulla della inerte legalità del documento e che in realtà è l’idea libera di un cinema impuro, sporco perché lanciato nel mondo, contro le cose, infiltrato da altre serie culturali, altre arti, mai chiuso; strutturalmente aperto invece per essere percorso attivamente da uno spettatore che si desidera e s’invita alla visione attiva, alla partecipazione, all’esperienza di un viaggio dentro un piccolo universo che prende vita nella forma di una costellazione tridimensionale di pezzi legati tra loro da relazioni multiple, mai univoche, da linee narrative, persone e personaggi lasciati liberi di seguitare a muoversi dentro film che non aspirano mai a una conclusione. Così, incappato nell’incontro con un carcere e con alcuni dei detenuti che lo popolano, Giovanni Cioni inizia a collezionare storie, scritture e narrazione seconde, materiali letterari, cinematografici, invenzioni, sogni, apparizioni, a stringere relazioni e intuire rapporti; li accumula, per poi montarli in una forma apparentemente elementare, tecnicamente povera, che invece tesse legami e risonanze infinite, che mette in rima Shakespeare e Calderón de la Barca con i sogni, i desideri, i dolori e le domande di uomini reclusi, che fa risuonare le loro voci nella stessa partitura nella quale inserisce Totò, Ninetto Davoli, l’assenza presente di Pasolini. Grazie all’incontro con Manuela Buono e Igor Princic – che poi lo producono – arriva al Milano Film Network dove trova l’interesse di diversi festival e dove vince il premio che gli consente di finire la post-produzione.

Qual è l’inizio della storia produttiva di questo tuo nuovo film?

Settembre 2006, fui inviato al PerSo con un mio film e lì c’era qualcuno – Maurizio Giacobbe e Marta Bettoni, responsabili della giuria dei detenuti – che mi propose di fare un laboratorio di cinema presso il carcere di Capanne, il carcere di Perugia. In quel periodo avevo rivisto Che cosa sono le nuvole? di Pasolini e mi venne l’idea: riprendere il dialogo tra Totò e Ninetto Davoli, quando Davoli-Otello s’interroga sul perché deve compiere il suo infausto destino, qual è la verità eccetera, e Totò gli risponde: «La vita è un sogno dentro un sogno». Lo scopo all’inizio era teoricamente solo quello di riprodurre questa scena e arrivare a realizzare un cortometraggio. In realtà mi son reso conto che non potevo fermarmi, non potevo aspettare di avere l’idea per un film, trovare le condizioni di produzione eccetera. Ormai s’era aperta una possibilità e bisognava seguitare. Da lì siamo partiti per un film. Pensandoci ora ti dico che forse fin dall’inizio avevo pensato che potevamo fare di più, ma che da solo mi ero imposto il limite di fermarci al laboratorio. È che non sono stato capace di rispettare questo limite. Mi sono reso conto che questa cosa che poteva sembrare un gioco – la recita, il film nel film sulle repliche di Totò e Ninetto – aveva invece preso corpo, era diventato qualcosa di vero nel senso che erano talmente entrati in questo gioco che era quasi come se fossero entrati nel film di Pasolini o che questo film continuasse, che prendesse vita dentro il carcere. Dunque bisognava seguitare il percorso, bisognava continuare. Il laboratorio doveva durare solo due mesi. Verso la fine di questo primo periodo sapevo che avrei continuato – a partire dal momento in cui uno di loro, Domenico, chiese se poteva registrare un messaggio per sua figlia e gli risposi che sì, ma che l’avremmo girato come avevamo girato le altre scene, sullo stesso set – e lo dissi anche ai partecipanti. Umanamente per me contava dir loro che non era finita. Abbiamo visto Pasolini, ho dato i testi, poi abbiamo cominciato a provare, provare, provare e a girare. Tutte le prove sono state filmate. Abbiamo passato anche molto tempo fuori dal set a parlare.

Giovanni Cioni

Registrando?

Solo l’audio. Fin dall’inizio volevo che il film fosse concentrato sul set. Il resto potevano essere solo voci. Molto importante nel metodo del laboratorio e poi anche del film sono stati anche la partecipazione e l’ascolto di chi era fuori campo: le voci che suggeriscono il testo, le voci che commentano, le voci che danno indicazioni all’attore, cercavo il coinvolgimento di tutti. Le voci si rimandano l’una all’altra proprio come fanno le storie raccontate.

Com’è andata la tua presenza tanto assidua per un tempo tanto lungo dentro il carcere?

Di quello che succede dentro sai solo quello che ti dicono le guardie e i detenuti, non tutti dicono le stesse cose. Ho scoperto molti dettagli relativi alla vita quotidiana che assumono un peso enorme quando vivi recluso: tutto dipende dalla buona o cattiva volontà di questo o di quell’altro, dell’educatore che ti giudica bene o del cattivo rapporto con una guardia. Abbiamo girato quasi tutto il tempo in una sala del carcere dove c’è anche il teatro, ci sono pochissime scene girate in sezione. Ho girato il meno possibile in sezione. Ho capito che quando andavo a girare nelle celle, quando entravo a girare con gli «attori», tutti quelli che non partecipavano al film venivano rinchiusi, si creava dunque una strana situazione, falsa. Volevo far sì che tutto questo spazio nel quale sono rinchiusi sembrasse uno spazio lontano, separato, diverso e distante. Fuori dallo spazio in cui siamo nel film. Così come il carcere lo mostro da lontano, quasi fosse il castello di Kafka, da fuori, stando in mezzo alla campagna umbra.

Quindi le immagini della campagna, comprese le immagini di cavalli, sono girate appena fuori del carcere?

Sì. Ci sono tre o quattro case coloniche là intorno: in una avevano questi cavalli, un’altra ha un orto. Le ho riprese perché all’inizio uno dei partecipanti, Rocco, aveva parlato di un sogno, e in questo sogno di una casa fuori dal carcere, e improvvisamente avevo pensato: vado a girare questa casa, una casa colonica di pietra, mezzo abbandonata. E sembra che sia la casa di cui si parla nel sogno. Poi si arriva dal sogno al carcere. E lo stesso ho fatto con i cavalli. Era creare questo rapporto con uno spazio altrove, con lo spazio fuori, che non sai mai se è il sogno del sogno di cui parla Totò. Tanto è vero che la prima volta che mostro immagini della sezione, lo faccio dopo il racconto di un sogno. Per me era importante questa dimensione sul senso di realtà o di irrealtà che si vive dentro.

Hai sentito resistenza o ostilità intorno a te?

Ostilità no, diffidenza sì, soprattutto all’inizio. Da parte delle guardie, che si chiamano «assistenti». Alcuni sono stati straordinari. Qualcuno capiva perfettamente che si trattava di qualcosa che faceva bene a tutti, e si comportava molto generosamente, altri no. Le guardie devono certo sorvegliare, è il loro lavoro, ma devono convivere in un ambiente dove il minimo incidente, la minima incomprensione, possono degenerare. Ogni ingresso dall’esterno comporta un significativo aggravio del loro lavoro. Inoltre devono portare i detenuti dalle sezioni al set, per ogni sezione c’è una guardia che li deve accompagnare, ci sono cancelli e cancelli da aprire, e magari l’addetto a quel cancello è in quel momento impegnato ad un altro cancello. Tutto diventa subito complicato e faticoso.

Qual è stato il principio guida che hai usato per districarti tra gli intrecci di storie e di persone che si volevano raccontare? Come hai deciso che quelle erano le cose che t’interessavano e le altre non potevi, non dovevi metterle nel tuo film?

Alcuni passaggi potevano essere anche controproducenti per le persone che li raccontavano. A un certo punto la chiave era diventata scegliere storie che potevano entrare in risonanza con altre storie. In questa idea quasi di composizione polifonica mi sono ritrovato nella stessa situazione sperimentata con Per Ulisse dove prevedevo delle cose e poi ne succedevano altre e via via eliminavo e andavo avanti. E ogni volta le cose che non avevo previsto e che succedevano mi davano nuove idee per andare avanti. E poi il finale: il finale di un film molto spesso arriva in maniera inattesa. E sento che è quello e nessun altro.

In molte occasioni hai parlato della funzione pratica del tuo metodo di lavoro che prevede un accumulo di molti materiali eterogenei che vengono poi lavorati da una scrittura vagamente letteraria, come metodo utile anche per riconoscere alcune delle possibili linee di lavoro come strade senza uscita. Hai scritto molto? Cosa hai scritto?

Sì, ho scritto su quello che succedeva, sulle proposte da fare all’incontro successivo. Poi succedeva che magari avevo previsto di fare qualcosa con qualcuno ma quando tornavo due settimane dopo quello era stato trasferito senza che nessuno mi avvisasse e dunque dovevo inventare qualcosa lì per lì, con qualcun altro. Molto nasceva dall’intuizione del momento, in base a quello che mi chiedevano loro. In realtà il montaggio del film è comunque abbastanza cronologico rispetto a quello che è successo. La prima parte è ancora il laboratorio, viene dai primi due mesi di lavoro, perché comunque c’era un’evoluzione nei rapporti e anche se non è esplicitamente raccontato, lo si sente.

Quando è venuta la seconda suggestione, quella di Calderón de la Barca?

Pasolini si era ispirato, tra l’altro, anche a Calderón de la Barca e veniva naturale approfondirne la storia. Tanto più che La vita è sogno parla di un principe detenuto fin dalla nascita che dunque è portato a interrogarsi sulla natura della realtà del mondo fuori, di un mondo che non conosce. Questa cosa aveva una forte connessione: alcuni di loro ti dicono che non sanno cos’è il mondo fuori, perché stanno dentro da anni, hanno perso addirittura l’uso della lingua. Era utile anche per poter parlare di qualcosa di cui è sempre difficile parlare. Perché quando si parla di carcere appunto si «parla», ma qui è diverso. Ognuno di noi può ritrovarsi in quello che raccontano, al di là del fatto che siano carcerati, al di là della loro colpa. Sembrano paroloni, ma si parla di «senso della vita» in qualche modo.

Spesso racconti un luogo, uno spazio non facendolo vedere per niente o facendolo vedere solo trasfigurato, scomposto e rimontato, passato attraverso la metamorfosi che avviene nella tua immaginazione. Come hai lavorato in questo senso rispetto al carcere? Come hai sviluppato il tuo congegno immaginario dentro questo confine obbligatorio?

Era un modo d’usare il linguaggio del cinema – il fatto è che per me il cinema crea degli spazi – appunto per creare quasi un’evasione dallo spazio in cui eravamo: entrare nello spazio obbligato attraverso uno spazio inventato che è il set con due luci e un telo verde che funge da green screen.Questo spazio immaginario in realtà diventa uno spazio reale perché è lo spazio dove vengono dette delle verità attraverso la recita. Dunque questo spazio di finzione diventa uno spazio reale perché lì sta succedendo qualcosa. E per me il cinema è questa creazione di spazi, e di fuori campo, che poi sono altri spazi potenziali: per esempio quelli immaginari nati dall’ascolto dei racconti dei protagonisti. Per me ha senso fare cinema se puoi usarlo per creare, per scolpire e ricomporre questi altri spazi. Questo film acquista un senso se gli spazi fuori dal carcere, ma anche gli spazi stessi del carcere – i corridoi, le celle – ci entrano solo attraverso il racconto dei sogni. È la prima volta che faccio un film quasi «in scatola», con un cavalletto, un set, le luci. Eppure ho la forte impressione che sia un film che viaggia tantissimo. Questo paradosso rappresenta in parte il senso di fare cinema per me, il piacere di farlo.

A un certo punto c’è la richiesta da parte tua nei confronti di uno dei detenuti di fare un passo avanti verso l’obiettivo. Nella sua apparente insignificanza, mi è rimasta impressa perché mi sembra sia un po’ il taglio nel sipario che svela la costruzione scenica dietro l’apparente improvvisazione. In quel momento si esplicita -discretamente – il fatto che tu hai un’aspettativa, un desiderio molto preciso a guidarti. Come hai ragionato allora sull’inquadrare – che rispetto alle costrizioni in mezzo alle quali hai girato questo film mi sembra una cosa inevitabilmente centrale -, quali pensieri ti sono passati per la testa quando facevi le inquadrature?

All’inizio le inquadrature erano scelte nella classica dinamica del campo-controcampo per ricostruire il montaggio dello scambio tra Totò e Ninetto. Per il resto, era più intuitivamente cercare un’inquadratura che potesse aprirsi al fuori campo. Però non volevo obbligatoriamente il primo piano sul viso, consapevole che uno, dentro lo spazio circoscritto del quadro, si deve poter muovere: dunque cercavo di lasciare un minimo di libertà per il movimento degli inquadrati. Decidevo volta per volta. Per esempio, improvvisando la messa in scena di una cosa detta fuori set, dovevo stare attento che non ci fossero impallamenti, oppure operare la scelta di un certo taglio di ripresa per dare di una persona aggressiva un’idea meno violenta.

Tornando al green screen, rispetto all’uso che fai dei pre-testi, soprattutto di quelli letterari, il green screen in questo film è fondamentale pur essendo concretamente e stilisticamente un elemento estremamente semplice, essenziale, quasi un correlativo oggettivo del pre-testo: una superficie che non serve ad altro se non a fornire la base coerente sulla quale dire cose nuove; un elemento che serva come sostegno, come adeguato supporto a una scrittura seconda che però assume senso in funzione della relazione rispetto a questa base, a questo sfondo primario.

Sono d’accordo. Quando sentivo che questa base, questo pre-testo – la parola pretesto è perfetta – ti permette di far rivivere qualcosa, mi dicevo che il testo stava prendendo vita nella carne dei suoi interpreti e che effettivamente senza quel pre-testo non sarei arrivato a questo film. E non sarei arrivato a raccontare le cose che racconto, non sarei arrivato a uscire dal condizionamento dello sguardo che si può avere quando si entra e ci si confronta con la realtà carceraria. Il pre-testo è una base quasi strategica per costringerti a guardare le cose in modo diverso e non rimanere condizionati, prigionieri di quello che pensiamo sia la realtà del carcere. Perché ci sentiamo anche il peso di una certa responsabilità rispetto a questa realtà. Ora, questa realtà, attraverso il gioco – e il pre-testo è un gioco – la puoi declinare e scomporre senza togliere niente al dramma, alla tragedia che rappresenta essere detenuti, alla condizione carceraria. Non penso che il film nasconda niente, censuri o ometta niente. Non credo di aver visto altri film che parlano del carcere come ne parla questo film. Perché l’ho fatto io, certo, sembra una cosa pretenziosa quella che dico. Però il fatto che uno spettatore qualunque semplicemente possa essere cosciente che questa esperienza lo ha coinvolto non perché sta guardando dei carcerati, ma perché si riconosce in loro, in quello che raccontano come se l’avesse vissuto anche se non l’ha vissuto. Questo per me è il traguardo importante.