“Un grande progetto di avvio alla lettura, basato sulle biblioteche”, così recita la didascalia al video-messaggio diffuso da Carlo Calenda via Twitter nella giornata di domenica 19 settembre. La proposta sottesa è di finanziare programmi per dotare le periferie di nuove biblioteche, perché la lettura non sia riservata solo a «chi fa il liceo» o ha già «la casa piena di libri».

Un messaggio in apparenza di sinistra, probabilmente rivolto a recuperare quell’elettorato più lontano dal centro di Roma. In realtà, proprio l’esclusiva attenzione per la lettura denota una sorta di pedagogismo compassionevole che non riconosce la diversità dei bisogni individuali e le diseguaglianze di classe.
Oggi le biblioteche possono essere molto più di luoghi per la lettura. Come ben emerge dal libro di Antonella Agnoli (2009) possono essere «piazze del sapere», cruciali per l’effettivo godimento dei diritti di cittadinanza. Per valorizzare questa funzione, però, occorrono competenze specifiche, risorse dedicate e, tassello assente dalla narrazione di Calenda, una chiara visione politica che ne concepisca a tutto tondo il loro valore sociale e utilizzo pubblico.

Quando si parla di biblioteche sociali si fa anzitutto riferimento a una concezione di spazio aperto e inclusivo non solo dal punto di vista dell’accessibilità fisica, quindi della loro diffusione capillare, ma anche alla capacità di stimolare relazioni sociali, di gestire la conflittualità e la diversità socio-territoriale. In altre parole, alla capacità di riuscire a “entrare” nelle dinamiche locali, così come nella vita quotidiana delle persone.

In questa prospettiva, le biblioteche sono anzitutto un tassello della sfera pubblica dei luoghi. Un’idea molto diversa da quella che sia sufficiente leggere un “buon libro” per appianare le diseguaglianze sociali, idea in cui peraltro si disvela tutta la falsa coscienza di una borghesia urbana incapace di mettere a fuoco le condizioni sociali che concretamente favoriscono la lettura. Ci sono esperienze a livello internazionale che vanno in questa direzione: da Aahrus a Copenaghen, passando per Losanna e Tokio. Fin dalla loro architettura materiale, tali biblioteche sono state concepite come estensioni dello spazio urbano, senza soluzione di continuità con la piazza esterna che le accoglie. Luoghi progettati per nutrire la multifunzionalità e l’ibridazione culturale. Qui non solo si legge: si gioca, si trovano servizi per l’infanzia, risorse per il relax fisico, spazi per l’ibridazione dei saperi e delle culture.

Chi ha studiato le funzioni di queste piazze del sapere, dà voce alle testimonianze di artisti che riconducono lo sviluppo delle loro biografie alla possibilità sia di accedere gratuitamente all’istruzione sia alla presenza di spazi per mescolare linguaggi. In questo modo le biblioteche appaiono come “luoghi terzi”, vale a dire spazi intermedi tra l’ambito famigliare e quello professionale in grado di intercettare anche le persone poco interessate alla lettura attraverso l’offerta di altri servizi. In Italia, con qualche eccezione, questo approccio è poco diffuso.

Lo era anche prima della crisi sanitaria. La pandemia, con le sue restrizioni alla fruizione dello spazio pubblico, ha ulteriormente accentuato l’atteggiamento delle pubbliche amministrazioni di considerare le biblioteche come stanze con tavoli dove la gente si siede a leggere. Una visione vetusta che, nei fatti, assume l’esistenza di una popolazione omogenea di persone con analoghe risorse di capitale sociale e culturale, sufficienti per fruire dell’opportunità di leggere. Una biblioteca vicina a casa non costituisce una opportunità di lettura per una donna con figli piccoli, in assenza di un asilo o di uno spazio dedicato ai bambini. Diverse sono le biblioteche concepite come infrastrutture sociali, secondo la definizione del sociologo americano Erik Klinenberg (2019): luoghi materiali, gratuiti e pubblici, che facciano i conti con la diversità di vincoli e risorse delle persone e con le diseguaglianze di classe.

Nella biblioteca-infrastruttura sociale, la figura del bibliotecario da sola non è sufficiente. Occorrono altre figure professionali, a partire dai progettisti sociali, e serve un modello di gestione a potere diffuso, con il coinvolgimento non solo cosmetico e di maniera delle associazioni.
Il coordinamento con le scuole, i servizi sociali e i punti di aggregazione del territorio, poi, deve essere un pilastro dell’azione. In altre parole, occorre un chiaro obiettivo di missione pubblica che ribalti la logica di una pedagogia compassionevole indirizzata a “chi non ha fatto il Liceo o a chi non ha i libri in casa”.