Anche a Copenhagen il fantasma dell’immigrazione è al centro del dibattito. «Se vieni in Danimarca, devi lavorare». E, ancora, «Regole più strette per l’asilo e gli immigrati».

Quando, nella scorsa primavera, si era capito che il paese stava imboccando la strada delle elezioni politiche anticipate, i socialdemocratici danesi, partito di governo che esprime anche la premier uscente Helle Thorning-Schmidt, avevano lanciato una campagna che mirava ad intercettare i crescenti umori anti-stranieri della popolazione. All’epoca, uno dei più noti commentatori politici, Thomas Larsen, del quotidiano Berlingske, aveva sottolineato come i toni dell’iniziativa segnassero «una netta svolta nell’intera storia del partito». Secondo Larsen era inoltre «difficile stabilire una differenza tra la campagna socialdemocratica e le posizioni del Dansk Folkeparti», il Partito del popolo danese, xenofobo e nazionalista.

Tre mesi dopo, a conclusione di una campagna elettorale dominata proprio dai temi dell’immigrazione, gli elettori danesi hanno fatto mercoledì del Partito del popolo una delle prime forze politiche del paese. Il DF ha raccolto il 21% dei consensi, guadagnando poco meno di 9 punti percentuali rispetto alle politiche del 2011. Questo, mentre il centrodestra del Partito Liberale è arrivato al 19,5% e i socialdemocratici si sono fermati al 26%. Risultati che indicano come sarà ora il leader dei populisti, Kristian Thulesen Dahl, i cui voti sono risultati decisivi per la sconfitta dell’attuale esecutivo di centrosinistra, l’uomo chiave per la formazione di un nuovo governo di coalizione tra destra ed estrema destra.

Dal canto suo, Dahl ha del resto già indicato la rotta, spiegando come il nuovo governo dovrà tener conto della linea espressa dal suo partito su alcuni punti decisivi. Prima di tutto, chiudendo le porte all’immigrazione, visto che «la Danimarca non è un paese d’immigrazione e non lo è mai stato» e sia perciò «inaccettabile una trasformazione del paese in senso multietnico». In secondo luogo, prendendo le distanze da Bruxelles, fino a ventilare, sul modello di quanto sostenuto dal premier conservatore britannico David Cameron di cui il Partito del popolo danese è alleato in seno al parlamento europeo, la possibilità di svolgere nel paese un referendum, non per l’uscita tout-court dalla Ue, ma per «rimodulare le forme della nostra adesione». Infine, quanto recuperato in base al drastico taglio delle risorse destinate all’accoglienza, ma anche alla cooperazione internazionale, dovrebbe servire a sostenere i settori più deboli della popolazione, soprattutto anziani, in un paese che invecchia rapidamente, grazie a una inquietante torsione in senso nazionalista e identitario delle politiche di welfare.

Secondo il politologo Ove K. Pedersen, il Dansk Folkeparti si presenta così come «un partito di estrema destra socialdemocratico», nel senso che, come altre simili formazioni del resto d’Europa, adotta una linea ultranazionalista e conservatrice su temi come l’immigrazione, ma difende contemporaneamente l’esistenza dello Stato-sociale, come nella tradizione della socialdemocrazia locale, ma solo per i danesi “d’origine”.

Un mix di populismo, demagogia, e spesso di aperto razzismo, che ha consentito a questo partito danese una progressiva ma inesorabile crescita nell’arco dell’ultimo decennio, fino a diventare l’ago della bilancia della politica nazionale.

Una vicenda che non rappresenta però un caso isolato in Europa, dove i movimenti xenofobi bussano sempre più spesso alle porte del potere, trasformando il razzismo in una sinistra prospettiva di governo. L’odierna affermazione del Dansk Folkeparti arriva infatti non a caso dopo che tra il 2001 e il 2011, il suo sostegno esterno era risultato decisivo per la sopravvivenza del governo di centrodestra guidato dal liberale Anders Fogh Rasmussen, poi passato al vertice della Nato.

Allo stesso modo, dopo un pressing elettorale di alcuni anni, il Perussuomalaiset, Movimento dei Veri finlandesi, su posizioni analoghe a quelle dei populisti danesi su immigrati e Ue, è entrato all’inizio di maggio nel nuovo esecutivo di Helskinki e ha visto addirittura nominare il suo leader, Timo Soini, ministro degli Esteri.

Entrambi questi partiti fanno parte del gruppo dei Conservatori e riformisti europei guidato da Cameron – terzo gruppo del parlamento di Bruxelles con 70 membri -, a cui aderiscono anche i tedeschi dell’Alternative für Deutschland e i polacchi di Diritto e giustizia, nonché i neonazionalisti fiamminghi della N-Va, vale a dire tutte formazioni che hanno posto il tema dell’immigrazione e delle frontiere al centro della loro proposta politica, non solo in termini propagandistici, ma anche come ipotesi di governo. Si dirà che c’è del marcio in Danimarca, ma stavolta rischia di essere contagioso.