Non c’è nessuna Dark Side
Mostra di Pesaro 55 Erik Negro riavvolge i fili della sua macchina del tempo, più di quattrocento ore filmate e compresse
Mostra di Pesaro 55 Erik Negro riavvolge i fili della sua macchina del tempo, più di quattrocento ore filmate e compresse
Un film «costato solo i cinquemila euro di grappa e birra che ho dovuto offrire agli assetati partecipanti». Si chiama Non C’è Nessuna Dark side, parto primo della liminale prassi filmica di Erik Negro, noto ai più come penna fina di CineLapsus e Filmparlato, abitatore carismatico e marginale di festival e kermesse internazionali, cinefilo attento e onnifago, e della sua amica di sempre, quella dei tempi del liceo Barbara Elese, che lo assiste in questo percorso durato oltre un decennio collaborando allo script, coadiuvando a parti del montaggio, ed essendo presenza cardine all’interno del film stesso.
Dopo la deflagrante visione pesarese nella sezione Satellite, curata da Anthony Ettorre, Annamaria Licciardello, Mauro Santini e Gianmarco Torri, l’impressione è quella di aver visto un film sul tempo, un tempo ora lineare, ora spiraliforme, disposto per strati verticali, e sul cinema, sul montaggio che da pratica sintattica, di connessione delle immagini, diventa prassi «pittorica», di generazione di nuove immagini. La voce di Erik (e di Barbara, che al momento tace), in una telefonica gracchiante, ci accompagna più addentro a questo film.
In due ore e quaranta minuti comprimi più di quattrocento ore di girato e dodici anni di vite.
Sicuramente l’idea della parte centrale, in cui c’è questa forma discontinua del tempo rispetto alla parte iniziale che fu elaborata e girata circa 12 anni fa, si basa sulla possibilità di una compressione, la possibilità di stratificare immagine, quindi di disporre il tempo su strati verticali, creando una diversa dimensione del tempo. Osservando il mio archivio di immagini girate negli ultimi 12 anni ho notato che c’erano «dei ritorni», luoghi in cui il girovagare della vita mi aveva riportato più volte, magari a distanza di anni. E la scoperta «agghiacciante» è stata scoprire che a distanza magari di un decennio avevo realizzato riprese sorprendentemente simili, a volte quasi identiche!!! È così che mi è venuta l’idea di «stratificare» l’immagine. Creare immagini di un luogo, di una situazione, che contenessero le diverse rappresentazioni che ne avevo dato nel tempo, semplicemente disponendole su più strati in sovraimpressione. Poi, per contenere ancora più tempo, quattrocento ore di girato nel tempo minuscolo di un film, ho iniziato ad accellerare le immagini, per farle durare di meno. Tempo velocizzato ma stratificato, quindi compresso nella direzione dell’orizzontalità ma espanso in quella della verticalità. È un tentativo visivo di restituire il nostro lavoro sulla memoria, un materiale per forza distorto, sempre meno uguale all’atto stesso della creazione di un ricordo, che già è una distopia rispetto all’atto vissuto originario, e più simile a una creazione originale, personale.
Un tentativo di ricostruire quegli anni secondo una traiettoria interiore, anche a costo di comportare una forzatura tecnica, o linguistica, ma possibile per la natura del mezzo digitale, che permette di comprimere e velocizzare, di stratificare un’immagine, già prodotta da codici digitali, decodificata a livello numerico dalla telecamera digitale, o dal cellulare che la ha colta inizialmente. Il livello su cui lavoro non è già più quello della realtà, ma quello della sua rappresentazione digitalizzata, alfa numerica, i codici che la macchina usa per archiviare digitalmente l’immagine, e nello stratificare questa immagine cerco di ricostruire il mio processo di archiviazione e di ritorno sull’archiviazione di questi dati.
Ti interessa di più l’idea del fenomeno, la percezione soggettiva che ne hai avuto, che non il fenomeno in sé..
Sì, ma sempre riprendendo il fenomeno nella maniera più oggettiva possibile. I miei soli atti «da regista» siano stati il girare, nel senso del reggere la telecamera, e montare. Per il resto ho preferito lasciare a chi mi ha affiancato nel film uno spazio libero, che mi restituisse la sua relazione con l’ambiente, con il paese, senza l’intralcio di altre strutture.
(Barbara): È stata una questione legata al bisogno documentale del film di «Catturare» le persone nella loro dimensione più reale. Lasciandogli uno spazio libero di espressione, privo di strutture preordinate, poteva coglierle sui molteplici piani che ne fanno «la persona». Non è un film verticale, è un film orizzontale, partecipato, per la cui riuscita era essenziale che fossimo noi «osservati» a operare certe scelte.
In questo senso, anche la scrittura, si fa labile, poco strutturante, lasciando che sia la vita, col suo disordinato fluire, a dare una struttura al film.
Sì, ma nel senso di una «retro visione», per come è accaduta, o meglio per come i nostri ricordi la strutturano nel loro archiviarla. Questo soprattutto nelle prime due parti, mentre nella parte finale si racconta piuttosto l’accadere attuale della vita, l’accadere del film. La terza parte, cioè, è «l’accadere» durante il film, che include anche il suo venire alla luce, e in cui sono io a essere filmato nell’atto del montare, nel girare, nel tentare ansiogeno di chiudere questo film. Per il resto è tutta una retrovisione,è la registrazione del mio specchiarmi negli altri, uno specchiarsi negli altri, uno specchiarsi del film in chi vi ha preso parte, ma sempre «filtrato dal ricordo», guardando cosa mi è rimasto, cosa ho potuto o saputo trattenere di certe situazioni o del tempo che ho passato con certe persone. Alla base del lavoro, soprattutto della parte centrale, c’è l’ossessione per l’oblio, la paura della cancellazione. Accendo la telecamera per paura di perdere una persona, un paesaggio, un’immagine che volevo ricordare. La cosa più importante del film, per me, sono le quattrocentosettanta e rotte ore di registrazioni che ho accumulato.
Memoria biologica…memorie digitali…: c’è da tirare in ballo tutta la questione del confronto uomo-macchina, Cronenberg, il primo Tsukamoto, eccetera eccetera…
Certo, è l’ammissione di una fallibilità. La nostra memoria è sempre a rischio «perdita». Ma il discorso sul limite riguarda anche il digitale, la sua capacità di archiviazione dei ricordi, come i suoi limiti fisici. Sul piano pratico basta pensare al crescente numero di hard disk che ho dovuto comprare via via, o ai problemi di «lentezza» nell’esportare i file pesantissimi del film o nel processare le immagini, una carenza continua di memoria e risorse di calcolo che contrastavano con la necessità di acquisire continuamente nuovi conglomerati di immagini, rimarcando sempre il problema di questa limitatezza.
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