Sei chiuso in casa e non puoi andare nel comune vicino? Non c’è problema: imbraccia un fucile e potrai muoverti liberamente per gran parte della tua provincia».
Chissà se ha pensato così il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio, quando ha sottoscritto l’Ordinanza n. 108 del 12 dicembre 2020 che, in una regione classificata come «arancione», autorizza i cacciatori a svolgere la loro attività non solo nel comune di residenza, ma in tutte le decine di comuni del proprio Ambito Territoriale di Caccia.

E il caso dell’Abruzzo non è isolato: atti dal contenuto simile sono stati emanati in Toscana, Calabria e Lombardia.
Mentre tutti i normali cittadini devono rinunciare a una semplice passeggiata in montagna, i cacciatori possono spostarsi anche per chilometri, nonostante la caccia sia solo una attività ludico-ricreativa (concetto molto discutibile) che non è affatto assimilabile alle attività professionali, ma che soprattutto è differente, per scopo e funzioni, dalla gestione della fauna.

Enpa, Lav, Lipu e Wwf Italia hanno scritto subito una lettera al Presidente del Consiglio per denunciare l’illegittimità delle disposizioni di questi provvedimenti regionali, in contrasto con il Dpcm del 3 dicembre 2020 e con il principio secondo cui le Regioni non possono indebolire le disposizioni nazionali poste a tutela della

salute.
Il Dpcm in vigore è stato emanato sulla base della dichiarazione di uno stato di emergenza nazionale per tutelare il primario interesse alla salute: consentire lo spostamento indebito fuori dal proprio comune di migliaia di persone, senza una reale motivazione, ma solo per esercitare un’attività ludica, appare una chiara violazione sia del diritto alla salute, sia del fondamentale principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione.
Del tutto fantasiosa la giustificazione che sottende i provvedimenti regionali: un presunto «stato di necessità per conseguire l’equilibrio faunistico-venatorio, per limitare i danni alle colture, nonché il potenziale pericolo per la pubblica incolumità».

Nessuno ha dimostrato questo «stato di necessità» con rischio imminente per colture e pubblica incolumità ma, soprattutto, nessuno può dimostrare l’idoneità dell’attività venatoria a porre rimedio a tale asserita emergenza. E che dire, poi, dell’aver consentito tutte le forme di caccia previste dal calendario venatorio, compresa, per esempio, quella agli uccelli migratori: qualcuno forse ha visto troppe volte il film «Gli uccelli» di Alfred Hitchcock e vede nei volatili dei pericolosi aggressori!

La caccia non si può qualificare di pubblica utilità, essendo svolta sulla base di una concessione e in maniera subordinata rispetto all’interesse di conservare la fauna selvatica, patrimonio indisponibile dello Stato: è inammissibile, e offensivo verso chi sta soffrendo per la pandemia da quasi un anno, avvalersi in maniera strumentale di norme emergenziali per consentire un’attività che, al contrario, dovrebbe essere limitata per ridurre i rischi sanitari.

È troppo anche per una classe politica regionale da sempre piegata ai voleri della lobby venatoria!