Sono passati dieci anni da quando il piccolo Tim ha steso papà. Che a sua volta aveva steso mamma. Ora Tim è un giovanotto, la terapia dovrebbe avere funzionato e lui può finalmente uscire dall’ospedale psichiatrico. A prenderlo per la ritrovata libertà è andata Kaylie, la sorella maggiore di un paio d’anni. Anche lei ha vissuto quei momenti da incubo nella casa di Hawthorne way 2705. Ha visto mamma deragliare come una belva incarognita e babbo uscire di zucca tra terribili mostruosità. Lei però non si è sottoposta a sedute psichiatriche, ha fatto ricerche e ha scoperto che tutti guai non derivavano da azioni volontarie dei suoi famigliari, erano solo posseduti dall’animaccia di uno specchio che per quasi tre secoli ha succhiato energia vitale da piante, animali e persone. Per questo ha rintracciato lo specchio e ha organizzato tutto per dimostrare la sua tesi con telecamere, termometri e timer per ogni occasione e soprattutto vuole la complicità di un più che restio Tim. L’uomo è davvero ingenuo quando crede di poter incastrare forze malefiche con il supporto della tecnologia. Quelle la sanno molto più lunga. Altro che hacker, possono fare ciò che vogliono non solo con le intelligenze artificiali, ma anche con quelle naturali.

Mike Flanagan si era fatto conoscere con un corto molto apprezzato in zona horror. Ora ha avuto qualche dollaro in più a disposizione e dimostra di possedere davvero un talento di genere, nonostante qualche ingenuità. Tanto per cominciare tutto precipita quando i Russell arrivano nella nuova casa, ma una volta tanto l’edificio è innocente, il male viene portato dagli operai che trasportano arredamento d’epoca, ossia quello specchio che nel corso degli anni ha lasciato, secondo Kaylie, una lunga scia di sangue. Poi lo sviluppo della narrazione genera volutamente confusione perché lo specchio altererebbe i comportamenti, spingerebbe a compiere azioni insospettabili e questo permette di mettere in scena momenti autenticamente raccapriccianti come l’addentare con voracità una lampadina convinti che si tratti di una mela. O una gigantesca cicatrice da cesareo che si riapre. Roba genialmente perversa. E non mancano frasi a effetto come quella di Tim che incalza la sorella «è più probabile che tu ricordi male o che uno specchio si mangi un cane?». Risposta facile: la seconda che hai detto.

Non manca il repertorio canonico degli occhi bianchi, dei denti sparsi, dell’autolesionismo, dei cerotti staccati che tornano al loro posto, delle unghie strappate, delle catene, dei dubbi e dei vicini imbecilli, ma sono soprattutto i due piani temporali che sfumano uno nell’altro che si confondono e si sovrappongono a costruire una tensione autentica. Oculus mantiene quel che promette: giocare col sangue e farsi beffe dei buoni sentimenti, anzi è un attimo perché la famiglia diventi terreno d’incubazione di ogni nefandezza e in quei casi è meglio non lasciarsi andare al gioco degli affetti, ma tenere d’occhio le piante, un segnale inequivoco.