Fino a poco tempo fa l’immagine consolidata dell’Italia era quella di un paese vecchio e polveroso, con classi dirigenti vecchie e polverose. In tale immaginario il problema delle giovani generazioni era direttamente connesso ai “dinosauri da sconfiggere”, per citare La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana: governanti fuori dal tempo, figli di un’epoca precedente alla rivoluzione informatica, impedivano l’emergere di una straordinaria generazione che potrebbe invece riscattare le sorti del paese. Questa era la vulgata, l’opinione diffusa, il sentire comune. Il problema era ed è un altro. E, ovviamente, è andata diversamente, sta andando diversamente.

Il Movimento 5 Stelle prima e i renziani subito dopo hanno cambiato la percezione e la sostanza della composizione dei gruppi dirigenti di questo paese, ma non accennano affatto a cambiare verso della condizione delle giovani generazioni e il segno delle politiche che hanno causato tali condizioni.

In Italia, infatti, abbiamo al contempo il premier più giovane della storia della Repubblica e il tasso di disoccupazione giovanile più elevato della storia della Repubblica. Tracciare un nesso causale tra questi due dati di fatto potrebbe forse essere arbitrario, ma la simbologia resta potente.

Nel nostro paese la questione generazionale è stata risolta da Renzi dal punto di vista del potere inteso come sostantivo, come presa del potere, ma non del potere come verbo: poter programmare la propria vita, poter perseguire i propri obiettivi, poter acquistare una casa, poter valorizzare le proprie competenze anche fuori dal quadro ipercompetitivo del tutti contro tutti, poter vivere con dignità con salari equi e un welfare universale, poter scegliere di restare nella propria terra. Poter scegliere, autodeterminarsi appunto. Un concetto che per un’intera generazione rimane ancora una chimera.

Chi dovrebbe occuparsi di risolvere davvero questa enorme questione sociale è la sinistra, ridotta ad essere un’entità sparigliata, sfibrata e indebolita da anni di errori e sconfitte, colma di insuperabili rancori personali e schiava di un dibattito spesso autoreferenziale.

Nel frattempo però il conflitto sociale riemerge: come spesso è successo in questi anni, i protagonisti sono i precari e gli studenti, così come gli operai. Le piazze tornano a riempirsi, ma sono orfane di rappresentanza politica e a volte anche di rappresentanza sindacale.

Se da un lato la piazza sindacale del 25 ottobre era orfana, ma consapevole di esserlo le migliaia di ragazzi scesi in piazza con lo sciopero sociale (miei coetanei precari, ma anche tanti studenti ben più giovani) sono orfani inconsapevoli e in larga parte disinteressati (a voler usare un eufemismo) all’ipotesi di avere una sponda politica nelle istituzioni e nel terreno politico. La generazione precaria non ha mai conosciuto una sinistra di cui avere nostalgia e, ci piaccia o meno, non ha ansia di costruirla, è disillusa, stanca di essere usata dal dibattito politico come semplice esercizio retorico o come manovalanza nelle campagne elettorali, comprensibilmente distante dalla sinistra conosciuta.

A chi non è disilluso e sente l’urgenza di una sinistra politica non resta che cercare di sorprendere questa generazione, recuperarne l’entusiasmo con un processo nuovo, non assimilabile ai precedenti, un percorso che sia insolito e davvero in grado di cambiare la vita delle persone.

Troppo spesso la questione generazionale come questione sociale viene sbandierata in modo strumentale: un problema politico cui viene data una risposta politicista. Per chi non fa politica per vivere, ma per cambiare la propria vita, per chi fa politica per il potere come verbo e non come sostantivo – il ricambio generazionale non è l’obiettivo di un processo politico, ma semplicemente quel che accade nel momento in cui si aprono porte e finestre e si afferma finalmente che i soggetti politici non sono il fine da preservare, ma lo strumento da utilizzare nella battaglia da perseguire.

Perché, nonostante ci siano oggi giovani ministri e giovani esponenti dell’opposizione, nulla cambia per i giovani cittadini? Perché non è l’età anagrafica a dare la cifra del cambiamento, e dire “largo ai giovani” non basta.

La questione generazionale in termini di lotta alla precarietà, alla disoccupazione giovanile, alla dispersione scolastica, per il diritto allo studio e un nuovo welfare, per l’innovazione e la buona e nuova occupazione, può essere risolta solo se la si considera come la punta di un iceberg, di una lotta di classe, una guerra condotta dall’alto che è sempre contro i poveri, mai contro la povertà. I giovani risultano i più colpiti dalla crisi non perché i poteri forti sono agé e colmi di invidia per le vigorose energie giovanili, ma perché sono i primi ad essere investiti dalla nuova fase di ristrutturazione neoliberista che, nella periferizzazione dell’Europa, importa in Occidente un modello di sfruttamento intensivo ad alta ricattabilità e bassi salari: la precarietà come strumento di competizione al ribasso e redistribuzione delle ricchezze verso l’alto.

Di fronte a questa incontrollata escalation, la politica ha il dovere di non restare a guardare, di invertire la tendenza e fissare quei limiti che economia e finanza non sanno e non vogliono darsi. Un tempo i partiti di sinistra erano una parte di società che si organizzava e ambiva a cambiare il tutto, oggi ambiscono a essere il tutto (partito piglia-tutto, partito della nazione) per far sì che nulla cambi.

In un contesto così complesso non servirebbe a molto un semplice, pur se inevitabile e urgente, rinnovamento delle classi dirigenti della sinistra politica e sociale, serve che la discontinuità sia vera e evidente. Serve edificare una sinistra che sappia fronteggiare in maniera credibile la sfida di cambiare i rapporti di forza, reinventare le parole, organizzare la parte società che in basso subisce e si impoverisce, contro chi in alto decide e si arricchisce.

Non basta una sinistra dei nuovi, serve una sinistra nuova.

Se vogliamo aggregare e organizzare in una nuova sinistra quella parte di società che ambisce a “cambiare il tutto”, giovani e non, dovremo scegliere saldamente dove schierarci: guardare alle posizioni e non solo al posizionamento, alle strategie e non alle tattiche, superare rancori e presunzioni. Avviare finalmente un percorso credibile, in grado di risvegliare energie e conquistare consensi, che ottenga risultati concreti e non si limiti a una lotta di testimonianza, importante, ma di cui tanti non sentono il bisogno.

Se vogliamo costruire davvero una nuova sinistra, non abbiamo bisogno di rottamare: fin troppe sono le macerie che abbiamo accumulato negli anni. È tempo di costruire, di rimettersi in piedi sin dalle fondamenta, dal basso, con chi in basso ci vive, contro chi in alto ci sfrutta.

*attivista di Agire, Costruire, Trasformare (Act), già portavoce coordinamento universitario Link e candidato alle elezioni europee per l’Altra Europa con Tsipras