Dall’Unione europea arrivano anche buone notizie. Mentre tutta l’attenzione era concentrata sul Consiglio dei capi di governo, ieri la Corte di giustizia, con sede a Lussemburgo, ha emesso un verdetto storico per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici gay, lesbiche, bi-, trans- e intersessuali. D’ora in avanti chi vuole discriminare avrà, per fortuna, vita più difficile. La sentenza è europea, ma la vicenda è tutta italiana, e nasce dalle dichiarazioni che il noto avvocato Carlo Taormina rilasciò nel 2014 alla trasmissione radiofonica La Zanzara: «Nel mio studio non assumerei mai un omosessuale».

Contro l’ex deputato berlusconiano la Rete Lenford, associazione di avvocati per i diritti civili, intentò una causa di fronte al tribunale del lavoro di Bergamo, vincendola. Anche il processo d’appello si risolse allo stesso modo: per i magistrati le parole di Taormina violavano le normative che impediscono di discriminare sulla base dell’orientamento o dell’identità sessuale le persone nell’accesso al lavoro. Nessun datore di lavoro, nemmeno chi dirige uno studio professionale, può sottrarsi all’obbligo di parità di trattamento verso chi aspira a un impiego.

Approdata in Cassazione, la causa ha preso la strada verso Lussemburgo, per quello che in termine tecnico è un «rinvio pregiudiziale»: i supremi giudici italiani, quando si trovano a dover applicare regole di origine comunitaria (in questo caso la Direttiva 2000/78), possono chiedere alla Corte Ue indicazioni su come interpretarle correttamente, prima di pronunciare la propria sentenza. E ieri è giunto l’atteso verdetto, che ora dovrà essere recepito dagli ermellini di Piazza Cavour. I magistrati europei hanno dato ragione su tutta la linea alla Rete Lenford, rappresentata nella causa dall’avvocato Alberto Guariso, uno dei maestri indiscussi del diritto antidiscriminatorio. Nonostante i precedenti favorevoli, e l’indubbia competenza dell’associazione e dello stesso Guariso, non era scontato finisse così.

La linea della difesa, infatti, puntava sul principio di libertà di espressione, protetto anch’esso dal diritto europeo e costituzionale, affermando che Taormina si fosse limitato a «dire», ma senza «agire». In sostanza, questa la tesi dei difensori dell’ex sottosegretario: ci sarebbe discriminazione solo in presenza di un fatto specifico, cioè di una reale procedura di assunzione in atto, e non di fronte a una semplice dichiarazione «in astratto», come nel caso in questione. Per la Corte del Lussemburgo, invece, «la libertà d’espressione non è un diritto assoluto e il suo esercizio può incontrare limitazioni, a condizione che queste siano previste per legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto nonché il principio di proporzionalità». Condizioni che, secondo i giudici europei, in questo caso sono soddisfatte.

C’è un limite alla libertà di espressione di chi afferma pubblicamente la propria intenzione di discriminare nelle assunzioni dei propri dipendenti. C’è un limite alla «libertà di omofobia» negli uffici e nelle fabbriche.

Va specificato che l’ambito di applicazione della decisione di ieri è limitato alle discriminazioni nell’accesso al lavoro, e non a tutte le altre possibili tipologie di situazioni in cui le minoranze subiscono il pregiudizio altrui. Ma il risultato è comunque di enorme rilievo, anche perché la Corte del Lussemburgo ha stabilito contemporaneamente la piena legittimità della Rete Lenford ad avere agito in giudizio contro Taormina. Anche se nella vicenda non c’è mai stata una persona in carne ed ossa, con nome e cognome, a patire direttamente l’abuso omofobico, per i magistrati Ue questo non impedisce a un’associazione che si batte per i diritti dei soggetti lgbti di intentare una causa e chiedere un risarcimento danni, perché la discriminazione è stata di natura collettiva. Quello per i diritti, nel nostro Paese come in altri stati della Ue, resta un cammino ancora lungo, ma ieri si è sicuramente compiuto un passo avanti.