La noia è nelle giornate vuote, nelle azioni ripetitive che compiamo a casa o al lavoro, nei comportamenti e gesti uniformi che esterniamo e ci scambiamo. I solitari, gli introversi, staccati dai rapporti sociali, si annoieranno a morte. O forse no, essendo la sensazione di noia connaturata alle loro personalità. Gli adolescenti si annoiano perché insoddisfatti mentre gli ex-adolescenti, ancora insoddisfatti, si rendono solo noiosi. Proprio nell’adolescenza, riuscivamo ad annoiarci perfino al luna park; tutte le sere per un mese intero non mancando neppure una volta. La spinta ad andarci ce la dava la paura di perdere un giro di giostra, di privarci di un’occasione sapendo che gli altri, compagni di svaghi, se ne stavano a ciondolare in mezzo a luci vorticose e rutilanti. Ma ci si può annoiare in luoghi predisposti al divertimento o laddove comunque è in atto un’attività frenetica? Una risposta, a suo tempo, ce la fornì il giornalismo. Fino all’avvento del computer le redazioni dei giornali, fra macchine da scrivere, telescriventi, telefoni e tanto altro venivano raffigurate, di sera soprattutto, come il tempio della rumorosità e della molteplicità di voci. Insomma tutto potevano essere, all’infuori di un ambito in cui vigono quiete e inerzia fino al punto da far venire noia.

Nonostante ciò Dino Buzzati, assunto dal «Corriere della sera» con la qualifica di redattore, manifestava malcontento per la routine del lavoro redazionale regolato da ritmi metodici. In quegli anni, per lui immutabili e dunque noiosi nella sede di via Solferino, ideò e scrisse la sua opera letteraria più nota («Il deserto dei tartari» del 1940) la cui trama è l’allegoria del tempo abitudinario e di attesa, che consuma la vita, trascorso nella redazione del giornale milanese. D’altronde «soltanto gli esseri intelligenti provano noia», diceva Leopardi con una punta di snobismo probabilmente. Di certo Dino Buzzati è stato giornalista dall’intelligenza originale oltre che, da scrittore, voce introspettiva della letteratura del Novecento. A noi, benché esseri comuni in balìa della noia e dei noiosi, stufava anche la ragazza con cui per un certo periodo si usciva. Non necessariamente perché se ne incontrava un’altra più carina o interessante. Quella con cui filavamo poteva andare benone e magari godere di benessere economico, aspetto non trascurabile. Era proprio il rapporto stretto, il legame possessivo, che a un certo punto della storia si rivelava soffocante. Con l’amico invece mancava l’obbligo di vedersi ogni sera; incontrando quello attaccaticcio, insistente, non si perdeva tempo a scaricarlo. In strada se ne sarebbe trovato sempre uno nuovo. Eravamo tutti amici… occasionali. E variavano amicizie e conoscenze. Tanto, poi, da finire soli. Nella vita bisogna scegliere, aveva detto qualcuno: la noia o le noie.