La ricerca scientifica che riguarda la natura umana ha una ricchezza frammentaria nella quale è difficile orientarsi. Studi sul patrimonio genetico di sapiens e ominidi si intrecciano con una quantità ormai sconfinata di prove sperimentali, che mettono a confronto le capacità cognitive di neonati e corvi, bonobo e cetacei. Le scienze della natura rischiano dunque di ritrovarsi, loro malgrado, nel ruolo di una stanza delle meraviglie dove scorrono esempi di un mondo incomprensibile.

Il nuovo libro di Michael Tomasello, Diventare umani (Raffaello Cortina, pp. 432, e 29,00) propone uno sguardo d’insieme che aiuta a orientarsi, mentre mostra l’intenzione, ambiziosa e nobile, di offrire al lettore un aggiornamento a studi come La formazione del simbolo nel bambino di Jean Piaget o la Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori di Lev Vygotskij.
Venti anni di ricerche svolte presso il Max Planck Institute di Lipsia mettono a confronto abilità cognitive, sociali e comunicative di primati e piccoli umani allo scopo di proporre una teoria ontogenetica generale, cioè la ricostruzione fotogramma per fotogramma dello sviluppo individuale dei sapiens dalla nascita all’età adulta. La mole dei dati è impressionante. Tabelle, diagrammi e una fitta successione di capitoli offrono una panoramica approfondita circa somiglianze e differenze con le specie a noi geneticamente prossime.

L’attenzione congiunta
Tomasello individua due età critiche nelle quali convergono le osservazioni sperimentali circa l’emergenza di abilità tipicamente umane nei comportamenti presociali e nelle capacità linguistiche, nella cooperazione e nell’identità morale. «Intorno ai nove mesi – racconta l’autore – i bambini attraversano una sorta di rivoluzione» legata a quella che chiama «attenzione congiunta»: cominciano a triangolare lo sguardo con altri sapiens verso oggetti di comune interesse, per comprenderne le intenzioni, offrire oggetti o indicarli.
Intorno ai tre anni, i bambini cominciano a costruire una «prospettiva oggettiva», cioè svincolata dalla propria e in grado di mettere in relazione vari punti di vista. L’ insorgenza di una «intenzionalità collettiva» fornisce capacità, via via più sviluppate, di imitazione e autoregolazione del comportamento. Già in età prescolare, il bambino è in grado di darsi istruzioni ed esortarsi fino a seguire suggerimenti appresi dagli adulti. «Queste cose vanno qui!» si ripete un umano di tre anni per riuscire a mettere ordine tra i suoi giochi. L’interiorizzazione del punto di vista altrui, insiste Tomasello, non è un misterioso deus ex machina che risollevi le sorti dell’ontogenesi umana: consisterebbe, piuttosto, in un processo di imitazione a inversione dei ruoli. Per autoregolarsi, il bambino imita il comportamento adulto facendosi insegnante e non più solo alunno.

Prima venne la chiacchiera
Che si tratti di senso di colpa o norme sociali, gesti indicatori o gioco di finzione, il nostro comportamento ci distingue dalle altre scimmie (soprattutto dagli scimpanzé, sono presi in esame però anche gorilla e oranghi) per due aspetti. Innanzi tutto, gli umani mostrano di essere animali estremamente sociali. Una analisi quantitativa mostra che il 95% degli atti comunicativi prodotti dai nostri cugini consiste in ordini. Viceversa, a partire dal primo anno di vita, il bambino attira l’attenzione altrui per mirare a oggetti esterni che spesso coincidono con situazioni interne. Quando stende il dito verso il leone allo zoo, il bambino si rivolge al sistema complesso formato da un «animale insolito da guardare insieme» e non al bersaglio di un’azione manipolativa. Più che a una serie perentoria di imperativi, le prime forme comunicative umane somigliano alla chiacchiera.

In secondo luogo, Tomasello disegna un’ontogenesi umana all’insegna della precocità. Nei test d’imitazione un sapiens tra i dodici e i sedici mesi sfoggia capacità che gli scimpanzé riescono a replicare solo tra i due e i quattro anni. In altri casi è possibile scovare pratiche precoci destinate a rimanere estranee alle scimmie anche in età matura. A un anno il bambino segue lo sguardo dell’altro per capirne la direzione, mentre anche i primati adulti non si curano se la controparte abbia gli occhi aperti o chiusi.

È a proposito di questi due caratteri della condotta umana che il libro sollecita qualche analisi critica. Con motivato orgoglio, Tomasello etichetta la propria teoria come «neo-vygotskjana». Contro l’individualismo della psicologia evoluzionista tradizionale, la sua ricerca punta a sottolineare la nostra socialità. E, tuttavia, le fondamenta della tradizione che Tomasello intende criticare sembrano restare ancora le stesse: il fine dell’ontogenesi rimane il coordinamento in una sommatoria congiunta tra punti di vista infantili atomici, perché già da subito individuali.
L’alfa e l’omega di Vygotskij restano lontani: secondo l’autore russo, il problema che affligge i piccoli sapiens è la costruzione storica di un punto di vista singolare che sia distinto da un «noi» originario e magmatico.

Differenze inconfrontabili
Anche la tesi sulla nostra precocità è discutibile: il libro si concentra sul periodo tra zero e sei anni per insistere sull’idea di un’ontogenesi umana che ricapitolerebbe in modo accelerato quella scimmiesca. Uno sguardo sull’andamento successivo alla prima infanzia mostra, però, che i dati tra le due specie sono difficili da mettere a paragone. Gli scimpanzé, infatti, invecchiano prima degli esseri umani.
Per un verso l’apertura al mondo sociale dei sapiens è straordinariamente precoce; per un altro l’ontogenesi delle scimmie è più veloce poiché gli scimpanzé diventano adulti, cioè maturano sessualmente, prima di noi col risultato di un più alto tasso di specializzazione somatica e cognitiva. In futuro, un lavoro sui diversi ritmi di sviluppo di ciascuna specie potrebbe valorizzare ancor più il prezioso sforzo sperimentale di Tomasello.
I bambini non sono scimmie progredite: hanno infatti bisogno di una sfera pubblica alla quale i primati non hanno accesso. E se gli scimpanzé si sono dimostrati in grado di sopravvivere a diversi cicli d’estinzione è proprio perché non somigliano a bambini dallo sviluppo ritardato.