Nella Repubblica Democratica del Congo un gruppo di giovani donne e uomini combatte contro la deforestazione dell’ultimo polmone verde africano. E’ il Centro Studi regionale per la ricerca e la tutela delle foreste, nato nel 2018 grazie alla caparbia volontà del giovane ambientalista Nduzi Kumbu Judicaël, che ha saputo coinvolgere altri 30 donne e uomini locali. Ci troviamo nel villaggio di Nsioni, a circa 120 km dall’Oceano Atlantico, una zona ricca di foreste pluviali, saccheggiate dallo sfruttamento illegale.

Judicaël, cosa l’ha spinto a creare questo centro?

Fin da bambino amavo la grande foresta di Mayombe. Dopo la morte di mia mamma, quando avevo 10 anni di età, papà era senza lavoro e non riusciva a pagarci le spese per lo studio, eravamo 7 figli. Sono però riuscito a continuare a studiare, lavorando. Ho fatto la scuola di agraria e poi l’Università (Gestione delle Risorse Forestali). In quel periodo sono andato anche a lavorare in Angola, per pagarmi gli studi, là dove c’è il petrolio. Ma era un brutto lavoro, e c’era tanta violenza. Così, finiti gli studi, sono tornato nel mio villaggio. La determinazione a salvare la foresta si era rafforzata con la consapevolezza della gravità del cambiamento climatico. Qui in Congo abbiamo 155 milioni di ettari di foreste, dal 2002 è in vigore una moratoria che avrebbe dovuto proteggerle impedendo l’assegnazione di nuove concessioni per il taglio di legname, ma la moratoria è stata violata poco dopo la sua entrata in vigore. Secondo la Fao tra il 2010-2020 l’Africa ha perso 3,9 milioni di ettari di foreste all’anno.

Quali sono i problemi del suo territorio?

Il popolo soffre per l’impoverimento del suolo, per la sottrazione dei nostri prodotti agricoli, venduti in grandi mercati a basso costo. Purtroppo la gente deve pagare spese mediche e tasse scolastiche alte, e non ce la fa. Soffriamo per tante malattie, i bambini muoiono di malaria, che colpisce ancora oltre l’80% della popolazione locale. Anche l’Aids è diffuso, e ovviamente tutte le malattie gastrointestinali a causa dell’acqua non potabile. Il Covid, almeno quello, non ci ha colpito troppo.

La povertà contribuisce alla deforestazione?

La povertà è una delle cause della distruzione delle foreste, perché tanta gente taglia gli alberi e vende legna pensando di risolvere i propri problemi socio-economici. Il legno viene venduto nei mercati locali, per farci legna da ardere, o per cuocere i mattoni, oppure comprato dalle aziende che operano nell’illegalità, commissionate da uomini d’affari africani. Le multinazionali europee e asiatiche qui non ci sono più, perché hanno già saccheggiato tutti gli alberi più grandi e ora si sono spostate verso l’Equatore. Questo tipo di sfruttamento non è controllato, tagliano senza ripiantare, provocando grandi danni. Un altro problema sono le grandi miniere di oro, diamanti, e bauxite, che non lasciano nessuna ricchezza alla gente del posto ma solo sfruttamento e contribuiscono alla deforestazione. Infine c’è il disboscamento per uso agricolo, i contadini bruciano gli alberi, per avere un posto dove coltivare.

Quali conseguenze comporta?

Non solo emissione di CO2 e impoverimento del suolo, ma anche la perdita di biodiversità causata dalla frammentazione delle foreste. La fauna selvatica non può spostarsi, restando confinata. Un tempo qui nelle foreste del sud ovest c’erano i gorilla, ma da 10 anni non si vedono più, anche a causa dei bracconieri. Gl ultimi esemplari del Sud Ovest sopravvivono nella Riserva della Biosfera di Luki, ma anche lì sono tornati a tagliare gli alberi perché le guardie forestali non ci sono più.

Cosa fa la sua associazione?

Insegniamo alle donne e agli uomini tecniche agroforestali sostenibili, per fare orti nella foresta, per l’autosussistenza e per guardagnare qualcosa nei mercati. Piantiamo alberi di cacao e altri alberi autoctoni tipici della foresta, che fanno ombra, ad esempio la Limba Terminalia Superba. Non facciamo monocultura, ma alberi di cacao integrati nella foresta. Dal 2018 abbiamo piantato più di 300 mila alberi. Non abbiamo fondi né aiuti dal governo, ci autofinanziamo e viviamo con quello che raccogliamo dalla foresta, e con il cacao che riusciamo a vendere.

Fate anche incontri nelle scuole?

Sì, coinvolgiamo i bambini nella piantumazione degli alberi, insegniamo loro l’importanza anche delle piante medicinali, come l’Artemisia Annua, o la Quasia africana da cui si ricava una tisana per la prevenzione dalla malaria.

Avete un canale di commercio equo per vendere il cacao fuori dal Congo?

Non ancora, ma sarebbe molto importante. In Italia abbiamo come punto di riferimento la volontaria Magdalena Lanza, che ci sta aiutando a far conoscere l’associazione in Italia, e ha creato una pagina Facebook dedicata al Centro.

Come vi ponete con i taglialegna illegali?

Io li affronto disarmato, ci parlo, mentre loro sono armati di machete. Cerco di convincerli, do loro dei soldi per riscattare gli alberi, a volte accettano e se ne vanno, altre volte mi dicono che i mercanti del legno pagano molto di più delle mie briciole. A questo punto non posso fare altro che allontanarmi e guardare l’albero cadere, col cuore a pezzi. Denunciarli alla polizia è inutile, qui c’è molta corruzione e nessuno interviene.

Alla Cop 26 il presidente del Congo ha firmato un accordo contro la deforestazione.

Da decenni i leader non fanno altro che promettere e firmare accordi, e cosa è cambiato? Ho scritto al governo per denunciare il continuo taglio e traffico illegale, ma non ho mai avuto risposta. Se nessuno controlla, lo sfruttamento continuerà.