Forse importa poco quando una poesia è stata scritta, mentre incide la geografia in cui ha trovato casa: conta il suono delle parole che la modulano e la loro cadenza, ma è soprattutto la potenza di ciò che trasmette, durevole nel tempo, a restituire la fisionomia di un autore, i suoi più effimeri sentimenti e le sue più profonde emozioni. Ancora più potente, sarà quella poesia, se capace di raccogliere i silenzi corali di un gruppo per farne versi tramandati da generazioni. È il caso di Si Mohand-ou-Mhand, poeta della Cabilia nato nel 1849 e morto nel 1905, la cui vita si interseca con le principali vicende che segnano la storia dell’Algeria all’alba della prima guerra mondiale, e si fonde con i suoi versi per narrare i tormenti e le inquietudini dell’Algeria del periodo coloniale, nonché il dramma che sopraggiungeva alla sua gente. Nel 1830 i Francesi conquistarono Algeri, controllando in poco tempo l’intera regione.

NE RIMASE FUORI la Cabilia, una zona montagnosa che si estende dalla costa al massiccio del Djurdjura, abitata da una popolazione di lingua berbera, che di lì a poco sarebbe stata sconfitta e soggiogata in due riprese, prima nel 1857 e definitivamente nel 1871.
Da allora, la Cabilia è emblema di una resistenza politica, culturale e linguistica senza precedenti e Si Mohand ne è una delle più intense espressioni letterarie. Ora, una straordinaria edizione, con testo a fronte in berbero, a cura di Vermondo Brugnatelli, Mi spezzo ma non mi piego. La poesia di Si Mohand ou-Mhand (1849-1905), pubblicata da L’Harmattan (pp. 172, euro 19.50) consente al lettore italiano di conoscere il ricco repertorio di brevi componimenti poetico/musicali (asefru, pl. isefra) scritti in vita da Si Mohand, tra cui quello che dà il titolo all’intera raccolta, messi per scritto dalle generazioni successive.

Tre versi per ogni strofa e tre strofe in totale per ogni asefru. Un tema, una pausa, una risoluzione, con pochi ed essenziali abbellimenti. Questi gli elementi con cui Si Mohan modula schemi, all’apparenza brevi e ripetitivi, che invece variano sempre per tema, intonazione, stile. «Quanto la sua vita fu tribolata e carica di preoccupazioni altrettanto la sua poesia è nitida e spontanea», scrive Brugnatelli a commento di questi versi rapsodici. Al tempo stesso saldamente ancorati al repertorio tradizionale maghrebino, che attinge da varie fonti linguistiche (berbero, arabo dialettale, arabo letterario, francese), ma indissolubilmente innestati nella realtà letteraria cabila, i settantanove componimenti tradotti in Mi spezzo ma non mi piego toccano amore, morte, amicizia, guerra, lavoro, emigrazione, malattia e religione. La fortuna di Si Mohand, maledetto solo in vita, è anche o forse soprattutto nella voce dei suoi posteri: non lasciò alcuna opera scritta e le sue poesie sono state tramandate da generazioni anche attraverso la musica.

DATA LA SUA IMPORTANZA, Brugnatelli dedica un capitolo a «Si Mohand nella canzone cabila»: dai versi delle canzoni di protesta di Fadma (1883-1967) e Taos Amrouche (1913-1976) a quelli più moderni, nel solco e in affinità con il poeta, di Slimane Azem (1918-1983), fino a quelli della passionaria Malika Domrane (nata 1956). Nelle sue diverse interpretazioni, i temi dell’emigrazione e dell’identità berbera si uniscono a quelli più personali.

Di Si Mohand-ou-Mhand ci resta una sola immagine, che lo ritrae in piedi, con la sua barba bianca e un sacchetto con la sua pipa, attorniato da ragazzini in ascolto, all’ombra di una tenda: un animo costantemente in ricerca, nel mezzo di una vita precaria.