Rakel ha ventitré anni, non sa ancora bene cosa fare, sogna di diventare astronauta, assaggiatrice di birra, giramondo, guardia forestale o disegnatrice di fumetti. Passa molto tempo con la coinquilina Ingrid che un giorno, toccandole il seno, le fa notare di aver messo su qualche chilo. In effetti, Rakel si sente strana, il suo corpo le trasmette segnali inediti e inascoltati, l’olfatto è diverso e, a dispetto delle sua precedenti abitudini, beve tre litri di succo tropicale al giorno. Niente che le impedisca di proseguire per la sua strada che sarà pure tortuosa e senza una apparente destinazione, ma è pur sempre quella che al momento ha scelto di percorrere. Ingrid insiste, chiede all’amica di indagare meglio, sospetta che vi sia dell’altro e così da un cassetto esce magicamente un test di gravidanza.

NEI CONFUSI piani di Rakel, una cosa è certa, non ha intenzione di diventare madre e di cristallizzare la sua esistenza in un ruolo che non le appartiene. L’esame però le regala un responso inequivocabile quanto indesiderato: è incinta. E al consultorio, dove è andata per abortire, scopre di esserlo da ben sei mesi e mezzo.
Come ha fatto a non accorgersene? «È un fottuto e subdolo ninjababy che pensa di nascondersi lì dentro e rilassarsi per poi sgattaiolare fuori nove mesi dopo». Senza manifestarsi con i classici calcetti, sopravvivendo a nottate di alcol e droghe, il feto si è insinuato nella vita di Rakel per impossessarsene in modo sorprendente e repentino. E ora non resta che una sola opzione: darlo in adozione.
Con queste premesse inizia Ninjababy della regista norvegese Yngvild Sve Flikke, giunta dopo tanta televisione al suo secondo lungometraggio. Una commedia che usa il fumetto per esibire i sentimenti della protagonista e per dare una forma al prossimo nascituro, simile per certi versi a un grillo parlante, instancabile nel contraddire e punzecchiare la giovane e involontaria madre. I due dialogano soprattutto sulla questione dell’adozione, perché Rakel vorrebbe tenere sotto controllo l’intero iter burocratico, cercando genitori non troppo ricchi, sicuramente non razzisti e altro ancora. Dal canto suo, il ninjababy si accontenterebbe di essere preso da Angelina Jolie, la madre adottiva di tutte le madri adottive.
Intorno a Rakel, oltre al piccolo feto parlante e a Ingrid, si aggirano due uomini. Il maestro di arti marziali Mos, quello che sembrava essere il padre del bambino se l’aspirante disegnatrice fosse stata incinta di soli tre mesi, e Minchia Santa, il vero padre con delle doti a cui è difficile, se non impossibile, dire di no. E poi la sorella Mie, quella che dovrebbe adottare il bambino che non ha mai potuto avere. Le cose si complicano perché anche Minchia Santa, dopo un clamoroso ripensamento, ha un’illuminazione. Vuole essere un padre a prescindere dal rapporto che ha con Rakel.

SE È VERO che molto del film si gioca sulla questione della maternità indesiderata di Rakel e sulle sue congetture che la portano sempre allo stesso punto, l’arrivo del neonato è da considerarsi un vero e proprio espediente narrativo per raccontare anche una storia nella quale la protagonista e i personaggi collaterali cercano una via per stare a questo mondo. Una sorta di romanzo di formazione nel quale una delle chiavi la fornisce all’inizio il maestro Mos, quando durante una sua lezione spiega l’ukemi, l’arte del cadere: «Penso che sia una cosa bella capovolgere una situazione in cui stai per sbattere il muso a terra, in qualcosa che ti consente di rimetterti in piedi e di avere il sopravvento, sia nella vita sia sul tappeto».