Un critico belga che gli era amico, Pol Vandromme, lo definì un capofila della droite buissonnière (vale a dire una destra rivoltosa, scanzonata) mentre un redattore della rivista che più gli era nemica, la sartriana «Les Temps Modernes», battezzò lui e alcuni suoi colleghi, vedremo subito perché, con l’epiteto di hussards, ussari. Fatto sta che l’oroscopo di un autore mai divenuto di senso comune in Italia, Roger Nimier (1925-1962) dalla vita breve e ardente, si staglia in una zona laterale e tuttavia non meno fervida delle lettere francesi. Firmatario di una decina di volumi usciti in piena Guerra fredda e in particolare di alcuni romanzi (ebbero effimera fortuna in Italia Storia di un amore e D’Artagnan innamorato, entrambi Longanesi 1964, e Giovani tristi, Edizioni dell’Albero ’64, nella benemerita versione di Alfredo Cattabiani), la sua vicenda esistenziale, se letta in retrospettiva, ha davvero qualcosa di predestinato. Orfano di padre, allevato nel sobborgo parigino di Neully in una famiglia borghese, adolescente destrorso e di simpatie monarchiche, vicino all’Action française di Maurras, l’unico fatto notevole della sua giovinezza è l’arruolamento, allo scadere della seconda guerra mondiale, nel corpo degli Ussari attivi dalle parti di Tarbes, negli Alti Pirenei, e sarà questa appunto, sia pure adulterata negli ingorghi di una immaginazione incandescente, la materia prima dei suoi romanzi.

Nimier peraltro scrive come vive, alla massima velocità. La sua pagina guarda allo stile rettilineo e rapido degli autori che ama, soprattutto il cardinale di Retz, Alain-Fournier e Stendhal di cui sogna lo stile à la diable tutto ritmo e noncuranza, mentre la vita quotidiana sembra attizzare di continuo il fuoco divorante delle sue passioni, la mondanità, il rugby, le auto da corsa, l’alcool, le donne. Prodigo del proprio talento fino allo sperpero, scrive per il cinema (sua è la sceneggiatura di un capolavoro quale Ascensore per il patibolo, 1958, di Louis Malle), è un critico militante a tutto campo (mai edite in italiano, le notevolissime Journées de lecture usciranno postume in due corposi volumi tra il ’65 e il ’95), infine occupa da Gallimard fin dal ’56 un posto da consigliere letterario ed editor curando la pubblicazione di maestri e di affini quali Marcel Jouhandeau e Louis-Ferdinand Céline che per lui aveva un debole e infatti lo ammetteva volentieri nell’arca di Meudon amandone la giovinezza compulsiva e fingendo di ignorare fosse proprio lui l’ambasciatore di Gaston Gallimard le vieux cochon, il vecchio maiale.
Per fatale paradosso, un tale prodigio di vitalità si estingue in un attimo il 28 settembre del ’62 contro un guard rail del raccordo Parigi Ovest dove va a schiantarsi l’Aston Martin di Nimier, il quale replica inconsciamente la tragica fine di un altro artista bello e dannato, James Dean. (Ed è questa una fascinazione cui è difficile sottrarsi, teste il suo maggiore specialista, Marc Dambre, che ne ha firmato sia la biografia, Roger Nimier hussard du demi-siècle, Flammarion 1989, sia un ricco numero monografico dei «Cahiers de l’Herne» nel 2002).

Ora, esce finalmente in italiano il romanzo eponimo di Nimier, L’ussaro blu (prefazione di Alessandro Gnocchi, traduzione di Salvatore Santorelli, Theoria, pp. 303, € 18,00), il cui contenzioso autobiografico rinvia al più vibrante degli esordi, Le spade del 1948 (Meridiano Zero 2002, a cura di chi scrive), romanzo di formazione di un adolescente, François Sanders, che passa si direbbe casualmente dalla Resistenza alla Milizia di Vichy restando chiuso in un labirinto psicologico dove si assommano, ormai al di là del bene e del male, la gratuità della violenza, il piacere del tradimento, la tentazione dell’incesto e un oscuro impulso autodistruttivo.
Nell’Ussaro blu la vicenda di Sanders è postdatata ai mesi successivi alla Liberazione ed è trasposta nella Germania occupata. La nativa ambivalenza di Sanders è ancora percettibile pure se al momento egli veste l’uniforme di un esercito regolare. Il suo spirito acido e penetrante, il suo sostanziale cinismo e un totale disimpegno politico-ideologico sono confermati, perché tutta quanta l’esistenza di soldato occupante si esaurisce nel resistere agli ultimi spasmi dell’agonia tedesca, in minime storie di sussistenza, di cibo e di sesso. Ma qui Sanders non è più un individuo isolato, una monade, perché gli sono accanto, e gli si alternano nei modi di un coro, ufficiali vichysti passati a de Gaulle, donne abbandonate e reiette, figuranti in divisa pari all’alter ego Sainte-Anne che, scrive Gnocchi nella prefazione, «è il romantico capace di cinismo» quando Sanders viceversa «è un cinico capace di romanticismo».

Per lo più occupato dai dialoghi e regesti autobiografici, L’ussaro blu si presenta infatti come una polifonia. Non vi succede niente che alluda a una trama ordinata ma tutto vi accade nel discorso tra coreuti alla prese con la nuda e cruda sopravvivenza che a sua volta prelude alla morale di Sanders, non meno disperata, una morale nichilista e innanzitutto anti-umanista. Quasi che Nimier, il borghese Nimier e felice di esserlo, avesse rovesciato per introiettarlo una volta per sempre il nemico Sartre, secondo cui, per un borghese, l’inferno sono gli altri: «Ormai, conosco il mio ruolo in terra, ma non so chi sono. (…) Vivere, dovrò vivere ancora, per qualche tempo in mezzo a loro. Tutto ciò che è umano mi è estraneo». Per l’appunto, netta è la sensazione che nel romanzo la polifonia sia più voluta che non realmente acquisita. In altri termini, chi legge assiste a un costante alternarsi dei personaggi che parlano in prima persona testimoniando ognuno uno stile differente e però mantenendo le caratteristiche di una voce sola, inderogabile, il che non toglie affatto merito alla splendida versione di Santorelli (prensile anche nei passaggi, e non sono pochi, di autentico virtuosismo). Perché cambi la voce e non solo lo stile, lo scrittore dovrebbe invece proiettarsi e negarsi in una alterità mentre qui, al contrario e nonostante i vistosi sbalzi linguistico-stilistici, è costante la incombenza di una voce sola, quella elettiva di Sanders o prima ancora quella di Nimier in persona, tagliente, aforistica, sarcastica, insomma un combinato disposto, stendhalianamente, di esprit e sensiblerie. Quanto era una forza nelle Spade e ancora in Giovani tristi, cioè la reiterata monodia, il segno elettivo della ossessione e del disamore, può dunque apparire un limite occulto del suo romanzo più ambizioso e, va pure detto, più generoso.
L’ussaro blu è il baricentro di una produzione artistica presto interrotta cui segue un decennio di vita dispersiva e convulsa dove all’ex ragazzo prodigio della destra rivoltosa si sostituisce il giovane uomo di mondo della immagine vulgata, il commesso prediletto di Gallimard, grisaglia e cravatta, Ray-Ban e auto fuoriserie. Il più grande tra i suoi interlocutori, Céline, l’aveva comunque presagito: «…è della sua macchina che vuole parlarmi, completamente nuova, così bella, in plastica … comprata apposta per venirmi a trovare! è un modo di uscire dal tempo, dalla gente e dallo spazio … comprarsi delle macchine! … sono d’accordo, lui si diverte». È una pagina che Roger Nimier non potrà mai leggere perché Rigodon esce postumo nel febbraio del ’69, quasi sette anni dopo il suo tragico incidente.