A Palazzo Vendramin Grimani ha aperto la mostra Nikos Aliagas. Regards Vénitiens (Sguardi veneziani). L’esposizione (visitabile fino al 2 aprile), è frutto della seconda residenza artistica assegnata dalla Fondazione dell’Albero d’Oro. Dopo il messicano Bosco Sodi, autore di installazioni gigantesche, cosmiche e materiche, tocca al fotografo francese Nikos Aliagas tessere un dialogo con l’edificio, negli oltre 400 mq del piano terra e della corte. Più noto come conduttore televisivo di programmi su France 2 e su TF1 fra cui Star Academy e The Voice, Aliagas ha all’attivo in Francia e all’estero una trentina di mostre, ma prima della residenza non aveva mai visitato Venezia. È entrato nei meandri della città, delle calli intorno al palazzo e del vicino campo San Polo, e ha realizzato 150 scatti in bianco e nero del vissuto di chi vi abita: gesti, volti, ferri del mestiere, scorci, insegne. Ne viene fuori una visione particolare, controcorrente rispetto alle normali modalità di percorrere Venezia.

«I turisti la attraversano frastornati – dice -, carichi di bisogni, di nevrosi, intenti a cercare immagini già viste e a riprodurle, facendo lo stesso selfie dentro lo stesso grande caffè e con la stessa posa. Così Venezia diventa un fantasma, una proiezione permanente di stereotipi che si ripetono, sinonimo di romanticismo, di carnevale. L’impressione che da un momento all’altro possa affondare deriva da questa immagine effimera che abbiamo prodotto. Ma Venezia è anche una città abitata, dove si può stare non per prendere il più possibile e andar via ma per scoprire chi c’è nell’obiettivo, per ricevere qualcosa della sua quotidianità. Rovesciando la prospettiva, si può partire dal principio che è Venezia a guardarci. Da questo punto di vista stride la differenza fra la motivazione di chi vive qui, la laboriosità briosa di persone che credono in quello che fanno e l’atteggiamento vacuo, superficiale di tanta gente di passaggio. Diversamente dai turisti e dalla gente che incontro in tv, i veneziani evitano di essere ripresi e inquadrati, oppongono resistenza. Come nei borghi o nei piccoli paesi, ogni mattina un signore anziano e la moglie vanno al bar, salutano il cameriere, si siedono e chiedono da bere. Poi, sempre alla stessa ora, passa un operaio con il suo carretto, fa due ciacole e prosegue. Venezia, libera dal traffico automobilistico, è un balletto ben orchestrato dell’umanità che in uno spazio-tempo riservato alla lentezza, gusta le piccole cose.

Ha fotografato molte maestranze a Venezia, che è anche una città di artigiani oltre che la sede degli artisti che espongono alla Biennale…
Sì, numerosi scatti sono dettagli di mani o di volti che esprimono i solchi di una vita. Sono figlio di un artigiano greco immigrato in Francia. Ho passato l’infanzia a osservare mio padre lavorare con le mani. Era lui il sarto dei costumi del film Borsalino (1970) con Alain Delon e Jean-Paul Belmondo. Lavorava tutta la notte nell’appartamento di 25 mq dove vivevamo. Nessuno lo ha conosciuto, è stato un uomo dell’ombra, all’ombra di Dior. Sono sempre gli artigiani a creare il mito e la reputazione degli artisti. Intervengono dietro le quinte non solo al momento della messa in forma ma per riparare l’opera, come nel restauro. Artigiano e artista condividono una frontiera, l’uno dipende dall’altro. L’urgenza non è la stessa – il primo lavora per mangiare, il secondo per bisogno psichico. Il percorso, non identico, è in comune.

Le 150 foto della mostra sono tutte in bianco e nero, anche se con contrasti e chiaroscuri dinamici all’interno delle inquadrature. Perché non il colore?
Il passaggio del tempo è la mia ossessione. Il colore evolve velocemente, mentre nel bianco e nero, pensiamo ad André Kertész, la foto sembra sospesa nel tempo. Il bianco e nero manda in cortocircuito la successione cronologica; permette di uscire dalla tesi folle, falsa, che il tempo sia lineare. Anche quando ci si perde a Venezia, ieri oggi e domani a un certo punto si sincronizzano. Ti trovi davanti a una porta che ti fa pensare a quante persone avranno abitato, abitano e abiteranno lì, a quanti matrimoni sono stati e saranno festeggiati. Così la foto in bianco e nero ti guarda per sollevare domande, da un lato ricordando l’implacabile finitezza della vita – abbigliamento, pettinature, mimica – dall’altra superandola.

Accanto a formati medi e piccoli per ritratti e scorci urbani ci sono in mostra due grandi fotografie a volo d’uccello della laguna. E riflessi della presenza dell’acqua sono nascosti ma rintracciabili dappertutto. Quanto vale l’ambiente in questa Venezia che ci guarda?
Moltissimo. La laguna costringe a stare in equilibrio. Salva dalle certezze che rendono l’uomo troppo sicuro di sé e perciò ridicolo, mentre l’acqua dà la possibilità di vedere che cose e persone hanno sfaccettature diverse. Leggo la mobilità della vita nella laguna. Sono nato in Francia, ma la mia famiglia è originaria di Missolungi, una città alla punta sud della Grecia occidentale che ha una laguna collegata al Golfo di Patrasso (è dov’è morto Lord Byron). I veneziani sono gondolieri, fanno altro, ma ho come l’impressione che mi guardino con lo sguardo dei miei parenti e degli abitanti di Missolungi. La laguna è nel loro dna e nel mio. L’ho capito qui, da casa i miei parenti non lo percepiscono. L’educazione francese non è stata né migliore né peggiore di quella che avrei avuto in Grecia, ma mi ha dato la possibilità di confrontare aspetti simili e diversi delle culture. E Venezia con i suoi lagunari, più forte di qualsiasi individualità, mi ha cambiato.