Il pianista svizzero Nik Bärtsch ha sicuramente una sua nutrita folla di ammiratori e adoratori. Al suo concerto per piano solo (preparato) all’Istituto Svizzero di Roma si respirava un’atmosfera di entusiasmo religioso come tra iniziati. Vestito con una specie di pigiama-tunica nera, pantofoline un po’ alla Mille e una notte, rasato, il concertista ha fatto la sua parte scenica per motivare il pubblico. Da noi e nel mondo è noto soprattutto per una serie di album a capo di un gruppo chiamato Ronin pubblicati con grande cura dalla Ecm. Vi regna un semplice infuso di minimalismo con tenue scansione rock e belle, misurate sequenze meditative. Prima ancora un suo album per piano solo, Hishiryo (2006), lo mostra in una versione minimalista spinta: implacabili ripetizioni di moduli.

A Roma ha puntato sulla varietà del vocabolario sonoro possibile e sulla piacevolezza. Come definirlo? A quale genere attribuire la sua musica? In questa occasione, s’intende. Gli ingredienti erano quelli che già si conoscevano ma con parecchi accenti new-age ed esotici in più. E anche qualche spunto jazzistico. Ha iniziato con percussioni regolari sulle corde. Poi ai suoni «sordi» delle corde ha unito suoni «sordi» della tastiera. In questa fase la scelta minimal sembrava assoluta. Ma col procedere del concerto, diviso in due lunghi brani, si è capito che si trattava non di una scelta rigorosa ma di un fondo in qualche modo sempre avvertibile, di una cultura musicale di base che agiva anche quando i moduli eseguiti erano di altro tipo.

Moduli, appunto. La musica di Bärtsch è fatta di moduli. Nelle opere di anni fa un solo modulo poteva essere esplorato a lungo, all’Istituto Svizzero i moduli erano brevi, continuamente cambiati in successione oppure sovrapposti. Non disprezzato nemmeno il criterio dell’ornamento: a uno schema ritmico mantenuto veniva, per esempio, frapposta una lieve, arcana, salottiera decorazione di un glissando sulle corde. Bärtsch ha voluto sempre riservare un’affettuosa sorpresa ai suoi ammiratori facendo scaturire da un modulo un altro modulo diverso.

Ogni tanto il modulo non era uno schema melodico-ritmico ripetuto e magari scarno ma un fraseggio vero e proprio, mai sviluppato, anzi accennato, con echi esotici, romantici e anche jazzistici. Le concessioni all’aura new-age, che nei dischi Ecm si potevano temere da un momento all’altro ma venivano sapientemente evitate, qui ci sono state, seppure con eleganza. Pianista virtuoso nel sovrapporre figure sonore come se avesse quattro mani. Compositore istantaneo (e «preparatore» dello strumento in corso d’opera con piccoli pezzi di legno e poco altro) di fertile fantasia. Un intrattenitore colto e charmante.