Qualche settimana fa ho visto Nightmare Alley di Guillermo Del Toro. Sono rimasto colpito e commosso. Attendo sempre con molta partecipazione un film di Guillermo. Ma questo ha avuto su di me un potere e una risonanza speciali. Poi mi sono reso conto che il pubblico non stava andando a vederlo, dato che trovo angosciante». Così inizia un pezzo, pubblicato sul «Los Angeles Times» il 21 gennaio scorso, firmato da Martin Scorsese. Un Op-e scritto «in soccorso» dell’ultimo lavoro del regista di La forma dell’acqua – The Shape of Water che, uscito nelle sale Usa a metà novembre (in Italia la settimana scorsa), è stato disertato dall’audience, inghiottito un po’ dalla variante Omicron e un po’ dal suo stesso, affascinante mistero. Del Toro aveva a sua volta «aiutato» The Irishman con un’entusiasta «recensione in 13 tweets», diffusa a partire dal suo seguitissimo indirizzo, dopo l’uscita del film.

MA BASTA vedere il primo quarto d’ora di Nightmare Alley-La fiera delle illusioni per capire perché il breve testo di Scorsese non è il semplice favore ricambiato a un collega (o il desiderio di appoggiare un film realizzato per l’uscita «tradizionale» in sala) ma un apprezzamento autentico.
Remake del noir omonimo di Edmund Goulding (1946), a sua volta adattato da un romanzo di Wiliam Lindsay Gresham (alle cui radici Del Toro e la cosceneggiatrice Kim Morgan sono tornati in profondità, eliminando tra le altre cose il finale imposto dal codice di censura hollywoodiano dell’epoca), Nightmare Alley inizia con l’arrivo del protagonista, Stan Carlile (Bradley Cooper, era Tyrone Power nell’originale) in un carnival, un circo itinerante. Negli occhi azzurri, che «riconoscono» il paesaggio dei carrozzoni con su dipinte le attrazioni, un mix di emozioni che combina luminosa anticipazione e uno strano, estatico, fatalismo.

Personaggio emblematico dell’America della Depressione, l’uomo «senza passato», Stan si trova subito a suo agio nella tribù nomade e marginalizzata. I mostri che Del Toro ama tanto, qui in una versione «a basso costo», umana troppo umana – «il carnival mi piace perché è onesto nella sua disonestà», ha detto Del Toro in un recente podcast; e ancora «perché è il gabinetto delle curiosità dei poveri». L’adesione a Todd Browning (Freaks è del 1932) si stempera immediatamente nel noir che avvolse Hollywood (e l’America) nella decade successiva. Un senso di disperazione che accomuna tutti i personaggi, come una nebbia, anche quando Stan, sfruttando gli insegnamenti di un mentalista (s)finito (David Stratahirn) e i favori di sua moglie (Toni Colette), intraprende la sua prometeica scalata sociale (un altro classico del noir) portando il suo «atto», un po’ truffaldino ma forse un po’ no, nei lussuosi night club di New York. Eleganti camere d’albergo invece del puzzolente pagliericcio del circo, due occhi dipinti sulla benda nera che gli impedisce di «vedere», Stan legge nelle coscienze e nei desideri del pubblico, evocando figli e o fratelli scomparsi -annusando nell’aria, dietro alla benda, i rimorsi e i non detti che aleggiano intorno a quei cadaveri.

LA TRUFFA del suo spiritismo da carrozzone incrocia quella più scientifica di una psicologa (Cate Blanchett, dark lady con look da Veronica Lake), che nonostante l’apparenza sofisticata, è bassamente avida come lui. Non c’è redenzione per nessuno in Nightmare Alley, un film di fattura bellissima, e visibilmente ricca, che porta in sé una spietatezza originale che non ha nulla di postmoderno. È quella pulsione di cinema (e non da omaggio al cinema) che Scorsese – come Stan quando arriva al circo – ha riconosciuto nel film: «Guillermo parla alla sua contemporaneità, nell’idioma di un tempo andato; e l’urgenza e la disperazione dell’allora si sovrappongono a quelle dell’oggi, in modo molto disturbante. (Nightmare Alley) È come un campanello d’allarme. Che disturba ma anche esalta. Come può fare l’arte».