Fatta eccezione per il piantone che presidia l’ingresso devi superare tre sbarramenti prima di incontrare una persona. Una recinzione in ferro alta tre metri seguita, pochi passi dopo, da un’altra alta anch’essa tre metri. E poi una porta blindata che introduce in un lungo corridoio in fondo al quale ci sono altre sbarre, più basse ma disposte in modo tale da costruire tante gabbie, una allineata all’altra. Il ministro degli Interni Marco Minniti potrà anche rendere i Cie più umani, come ha detto di voler fare, ma finché in quello di Ponte Galeria ci saranno tante sbarre sarà difficile non farlo sembrare a una prigione.

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Il tutto, poi, per 48 donne. Tante sono infatti quelle presenti ieri mattina quando il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani del Senato, fa il suo ingresso nel Cie romano per la periodica visita di controllo. «Un apparato abnorme, fatto di sbarre, poliziotti, carabinieri e soldati per sorvegliare donne che avrebbero bisogno più di un intervento di natura sociale e assistenziale che di controllo e detenzione», commenta. Insieme a Caltanissetta, Torino e Brindisi, quello di Ponte Galeria è uno dei quattro Cie sopravvissuti finora a una stagione che sembrava finalmente chiusa e che invece adesso resuscita per volontà del titolare degli Interni. La maggior parte delle donne che si trovano nella struttura, 22, sono nigeriane, insieme a otto cinesi, tre montenegrine, due cubane. E poi albanesi bosniache, iraniane, marocchine, russe. Giovanissime (salvo qualche eccezione l’età media varia tra i 20 e i 25 anni), quasi tutte hanno fatto richiesta di asilo e sono in attesa di una risposta da parte del tribunale.

Nel frattempo aspettano parcheggiare nel Cie. Dove non manca mai qualche caso limite. Come quello di Patrizia, Maddalena e Francesca, tre sorelle di 30, 18 e 19 anni nate in Italia i cui genitori, due rom arrivati decenni fa dal Montenegro, non hanno però mai chiesto per loro la cittadinanza. Cosa che le rende tre apolidi. Il 13 dicembre scorso durante un controllo di polizia nel campo di Aversa dove vivevano, sono state trovate senza documenti. È stato il loro biglietto di ingresso nel Cie. «Abbiamo un avvocato che sta facendo di tutto per farci avere i documenti e la cittadinanza» spiega Patrizia. «Non siamo mai state in Montenegro dove non conosciamo nessuno e non parliamo neanche la lingua. Speriamo di uscire presto».

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Le nigeriane rappresentano le situazioni più delicate. Praticamente tutte sono vittime di tratta e potrebbero avere un permesso umanitario. Perché questo accada devono però denunciare chi le sfrutta, un gesto che può costare loro molto caro. Conquistare la loro fiducia è quindi un lavoro lento e difficile, come sanno le operatrice di Befree che le assistono. Le cinesi sono invece la novità del 2016. Arrivate in Italia con la scusa dell’Expo e un visto turistico, sono finite poi a lavorare come parrucchiere o nelle fabbriche e nei laboratori di Prato. E’ bastato un controllo casuale dei documenti per mettere fine al sogno europeo.

Se oggi la situazione a Ponte Galeria è tutto sommato tranquilla, in passato non sono mancati i momenti di tensione anche molto forte. Clamorosa la protesta messa in atto nel 2013 da una decina di tunisini che si cucirono le bocche per non essere rimpatriati. Oppure quando, a dicembre del 2015, alcuni immigrati incendiarono il settore maschile che da allora è rimasto chiuso. Proprio in questi giorni dovrebbe essere pubblicato il bando per l’appalto dei lavori di ristrutturazione.

Se il tempo delle rivolte sembra essere passato sicuramente si deve in parte al fatto che oggi nel centro sono presenti solo donne, ma anche perché va riconosciuto alla Gepsa, l’ente che dal 2014 gestisce il Cie di Ponte Galeria, una gestione attenta della struttura. Oltre a 5 medici, una psicologa, un assistente sociale, 5 mediatori culturali e 32 operatori, grazie a una convenzione con la Asl ogni giorno sono presenti anche un medico e un infermiere del servizio sanitario nazionale che consentono di eseguire le visite delle nuove arrivate al momento dell’ingresso, stabilendo subito la compatibilità o meno con la detenzione. In caso contrario, per motivi psicologici o perché si tratta di una donna incinta, la persona viene avviata in un Centro di accoglienza. In genere si tratta di migranti che hanno ricevuto un decreto di espulsione e che dovrebbero lasciare il paese entro sette giorni.
«Rendere umani i Cie come chiede Minniti? Forse sarebbe possibile se si togliessero un po’ di sbarre, ma soprattutto se si velocizzassero le procedure e si rendessero i luoghi più accoglienti», ammette un operatore. «La maggior parte delle donne che si trova a Ponte Galeria non sa perché è qui, non sa quanto ci resterà e non sa dove andrà dopo», commenta invece Manconi mentre si avvia verso l’uscita. «Rispetto agli anni scorsi le condizioni del centro sono decisamente migliori – prosegue -. Resta l’assurdità della situazione. Proprio la presenza delle persone che si trovano oggi nel Cie dimostra il fallimento di queste strutture che, per stato giuridico e normativa, sono destinate a persone totalmente diverse da quelle che abbiamo incontrato».