La fine del mondo ha i colori dei fiori di ciliegio ampiamente sbocciati, le forme delle maniche corte delle magliette, e venticinque gradi a mezzogiorno in una Torino ligia e inquadrata come le sue vie a scacchiera.

Se non fosse per la pandemia di chiacchiere sul Coronavirus che si rincorrono in ogni tavolino, bar, edicola, ristorante, banco del mercato, autobus, ovunque, ci sarebbe da discutere di questo folle inverno che nemmeno ha più il buon gusto di travestirsi da primavera, ma passa direttamente all’estate piena a fine febbraio.

I torinesi sono a casa: hanno ricevuto delle indicazioni che da queste parti hanno il valore di un ordine militare, e così fanno. La vita continua, ordinata, silenziosa, senza panico: come in una grande caserma dove si sa cosa c’è da fare.

Il popolare mercato di Porta Palazzo è diviso in due: da una parte frutta e verdura, dall’altra vestiti. Di qua ambulanti maghrebini e italiani, di là l’oriente che va dal Pakistan fino alla Cina. I primi non hanno problemi, la folla si accalca e compra a prezzi stracciati fragole, arance, perfino le prime pesche. «Come mai questi prezzi così bassi?», domandiamo: le fragole si spingono abbondantemente sotto l’euro al chilogrammo, carciofi ne prendi dieci, puliti, a due euro. Risposta di un commerciante tunisino che conosce il mondo degli affari: «Abbiamo paura che chiudano i mercati, chiudano tutto, vendiamo a prezzo di costo per far fuori le scorte. Tu mangia le fragole, poi al massimo domani torni».

Di nascosto, là dove i mazzi di menta profumano l’aria oggi così temuta, alcuni avventori si accalcano in cerca di zenzero, divenuto oggetto di concupiscenza per le sue qualità mediche. In città sono finite tre cose: mascherine, gel igienizzanti per le mani e, appunto, zenzero. Per quest’ultimo però è sorto un mercato nero che vede quotazioni in netto rialzo: otto euro al chilo, un aumento del 100% rispetto a sabato. Monopolisti dello zenzero a Torino? I cinesi, che così si rifanno di tante ingiuste angherie.

Tutto questo nella parte frutta, verdura, pane, e formaggi. Gli altri, quelli che vendono vestiti, scarpe e di tutto un po’, distanti trenta metri, versano invece in un mare di solitudine.

Anche il «Mercato Centrale» costruito a Porta Palazzo è ricolmo di avventori tranquilli. Doveva essere il simbolo della “gentrificazione”, è stato colonizzato dai cittadini del quartiere che ci passano ore ed ore seduti ai tavolini interni. Sorprende il silenzio della città nel suo punto più caotico: ogni tanto si sente una sirena, ma le auto sono scarse e le strade vuote.

Corso san Maurizio, uno spartiacque tra il ricco centrocittà e il popolare quartiere di Vanchiglia, offre centinaia di parcheggi laddove fino a sabato si scatenavano corse all’ultimo sangue per uno strapuntino in zona blu. Alle 11 del mattino c’è parcheggiata un’auto all’inizio, poi una dopo cento metri in prospettiva.
Il centro, sotto un sole accecante, con i torinesi a casa ubbidienti diventa il regno dei turisti; ci sono solo loro, giunti per caso prima che scoppiasse il tourbillon medico mediatico: si riconoscono facilmente perché forse sono gli unici che indossano le mascherine. La gentile signora svedese che prende il caffè da Mulassano, storica caffetteria di piazza Castello dove la borghesia si mischia con tutti i turisti del mondo, lo dice chiaramente: «Italia gran casino, noi mascherina da casa ma Torino bel posto».

Via Po, poco distante, è così deserta che si può godere la prospettiva che forse vide solo Amedeo di Castellamonte nei suoi progetti: idem i portici davanti al teatro Regio, mentre piazza Castello esibisce troupe televisive che, non essendoci torinesi a spasso, devono ripiegare su turisti con le mascherine un po’ straniti da tanta attenzione.

«Torino è vuota perché è lunedì», scandisce un signore molto torinese e molto infastidito dall’idea che la sua città possa perdere l’aplomb e la freddezza consueta di fronte a «un fenomeno serio ma controllabile senza panico». Traduzione: «Non siamo come gli altri». Effettivamente non è il panico quello che si percepisce nella città semi spenta, bensì un senso di ordine e obbediente responsabilità.

Il centro commerciale «Le Gru» è il termometro per misurare l’esistenza di eventuali assalti ai forni. Alcuni torinesi lo chiamano ancora «da Berlusconi» dato che il già presidente ne fu l’ideatore e realizzatore all’inizio degli anni Novanta, poi vendette tutto. Il parcheggio esterno, enorme, è semivuoto: dentro il sottofondo di chiacchiere dei pochi avventori è sempre il solito, centrato su virus, statistiche e guerre di posizione ideologica tra avverse fazioni di infettivologi. Gli scaffali sono stracolmi oltre ogni limite, un tripudio di abbondanza messo lì a bella posta in messianica attesa di un assalto che non c’è. Qualche buco, ma davvero poco, si vede nel reparto sugo di pomodoro: il resto ricorda quelle immagini di opulenza che gli statunitensi sventolavano in faccia ai sovietici negli anni dell’Urss. I carrelli sono sobri e solo qualcuno ammucchia carta igienica, bottiglie di acqua e pacchi di pasta. Mascherine in giro, dato che non ci sono turisti, zero.

Cala la sera e a stento cala la temperatura, un lunghissimo tramonto si allunga sulla città che pare essere tornata quella di molti anni fa, quando si stava a casa a recuperare le forze dopo le doverose fatiche nella fabbrica di Agnelli.