Sembra ammiccare a un confronto tra i sessi modaiolo e un po’ scontato, ma è piuttosto l’elaborazione «aperta» di un numero imprecisato di abbandoni, assenze, nostalgie, lutti, vissuti tra il bisogno di appartenere e una spinta sonnambolica all’indipendenza, l’ultimo libro di racconti di Nicole Krauss, Essere un uomo (traduzione di Federica Oddera per Guanda, pp. 275, € 19,00). Dopo romanzi spiazzanti e coinvolgenti, la scrittrice newyorchese, una delle voci più interessanti della letteratura americana contemporanea, propone come fossero scampoli dieci storie disuguali e frammentarie che aveva in parte già pubblicato tra il 2002 e il 2018.

Al centro di queste piccole vicende austere e lucidissime una idealizzazione del «prendersi cura» che coinvolge sia la memoria che gli affetti. In Krauss tutti i ricordi, sia quelli storici e scritturali del popolo ebraico che quelli individuali dei variegati personaggi, sono episodici e appannati: «Noi viviamo, ciascuno di noi, per conservare il nostro piccolo ricordo – afferma l’antiquario Weisz in un romanzo del 2010, La grande casa –, in uno stato di perenne nostalgia e rimpianto per un luogo di cui conosciamo l’esistenza solo perché ne ricordiamo una serratura, una tegola, una soglia consunta sotto una porta aperta». Anche gli amori appaiono fragili malgrado il trasporto e la necessità e si disfanno nel gelo di un ascolto distratto, anche quando, come Sophie ed Ezra in Amour, condividono genealogie e sradicamenti.

Usando «la penna del cuore» intinta in un inchiostro leggero, Krauss sovrappone esperienze minute: «I’ve been drawn to many thin lines in my work» ha affermato in una recente intervista americana. Sono frammenti che nell’intreccio tra luoghi e identità approdano a un incontro tra una dimensione ebraica che stenta a uscire dall’ombra delle persecuzioni e una più ampia, quasi arcaica, dimensione umana. Nel racconto non particolarmente originale di una relazione amorosa e dubbiosa tra un tedesco e una ebrea sboccia nel narrato una sorprendente reminiscenza edenica: «lei prese la mano del Pugile Tedesco e la posò sul proprio torace all’altezza della stessa costola, che sporgeva con la stessa angolazione, ed era sempre stata così da quando aveva memoria (…). Le costole, le parve, risalivano fino al principio e (…) cercavano di dire qualcosa sul significato dell’essere un uomo o dell’essere una donna, e sul fatto che le due cose potessero dirsi uguali, o diverse ma uguali, o meno».

Con la mano su quella costola (che fa della donna il punto più alto della creazione) non si può che sconfiggere la morte: «se ci abbracciamo non moriamo» scriveva Elke Lasker Schüler lungo il cammino per l’Eden. Essere un uomo non smette di testimoniarlo. In «I giorni della fine» ci si sposa in un tripudio di fiori, nonostante l’ incendio che sconfina minaccioso fino alla città spazzando «via il vecchio ordine per far posto al nuovo», e la giovanissima Noa, contro ogni verosimiglianza, si accoppia con un giovane Chabad dopo aver consegnato al rabbino le carte dell’incomprensibile divorzio dei propri genitori. Così, nella casa ereditata dal padre a Tel Aviv, in «Io dormo ma il mio cuore è sveglio», vive uno sconosciuto che occupa, insieme all’appartamento, lo spazio della memoria e accompagna con la sua incongrua presenza la figlia nella ricerca di nuovi legami e nella scoperta di una biografia paterna rimasta troppo a lungo ignota.

Nel «Marito» l’arrivo improvviso di un estraneo scambiato per lo sposo scomparso trasforma la vita solitaria e sospettosa di una vedova «che stava diventando vecchia»; tra sorprese e diffidenze, in una girandola gioiosa che cita e stravolge la prima «scena» del Processo di Kafka, quell’anziano signore, piccolo di statura, la valigetta in mano e un sobrio cappello in testa, si fa largo in una casa di estranei rendendo tutti più buoni e soprattutto più felici.

Con ostinazione, la scrittura di Nicole Krauss si aggrappa alla sopravvivenza, portando con sé l’etica della umanità e della compassione in un piccolo bagaglio a mano che pesa poco ma non si abbandona mai. C’è spazio anche per riflettere sulla responsabilità morale dell’artista che si incunea in una narrazione contraddittoria e, a tratti, surreale, «Nel giardino». Qui un giovane botanico racconta con ammirazione la vita e l’arte del «più grande architetto di giardini dell’America latina» per il quale lavora: è un genio che crea scenari di rara armonia raccogliendo le piante più esotiche e le forme più belle, ma pur di non abbandonare la sua creazione, sopporta di vederla profanata dalle fosse comuni di dittatori sanguinari: «Ci sono persone – riflette il segretario con irrisolta inquietudine, incapace di andar via e oppresso da quanto ha scoperto – che hanno commesso crimini terribili. E ce ne sono altre che sono state complici. Quello che non ho mai saputo è cosa comporti essere complice di un complice. (…) No, ciò che non ho mai saputo è cosa comporti non solo cedere, ma in qualche modo approvare».

«Essere un uomo» è anche il titolo del racconto originale che conclude il volume, un testo lungo e articolato per un omaggio indocile alla forma romanzo. Con sprezzo del pericolo e ammirevole maestria l’autrice raccoglie in poche pagine oscillando tra la prima e la terza persona, tra ardimenti lirici e deciso realismo, i molti temi della sua narrativa: famiglie, coppie, solitudini, viaggi e sogni che la varietà delle voci, l’impasto di timbri e l’episodicità del vissuto rendono rumorosa e coinvolgente. Come filo rosso, tradito a volte, ma mai abbandonato, le tessiture della tradizione ebraica e di quel sottile compianto per i troppi morti e le troppe ingiustizie che in Nicole Krauss, giovane donna dalle molte origini e dagli incerti confini, non diventa mai (e le siamo grati) obbligo, ritualità o anche solo riempitivo per una vena oscillante.

Krauss la celebra nel legame roccioso tra padri e figli, nell’incontro di un io, in genere femminile, con la storia, con i corpi (pugili, ballerini, soldati, ragazzi che nuotano e un padre che invecchia) e negli infiniti racconti che avidamente registra. Tra i molti crocevia che portano la protagonista tra braccia e strade scomode e precarie si ricostruisce la cronaca di una crisi personale e «politica» che si stempera nel racconto di una maternità tenera e primaria.

Un to be a men dedicato, nell’intrico di dubbi e destini, ai figli adolescenti e a quel diventare inevitabilmente «grandi» che salva il passato, dà un senso alla storia e redime gli abissi. È il richiamo convinto al L’dor Vador («di generazione in generazione») come soglia intransitabile dell’ebraismo: «Quando alla sera gli auguro la buonanotte con un bacio, si raggomitola contro di me e mi confida in tono nervoso di voler restare bambino, di non volere nessun cambiamento. Ma non è già più un bambino. È fermo laggiù, su un bassofondo tra la riva e un mare senza fine, e, come si dice, l’acqua sta salendo».