Una fabbrica che si avvia a chiudere definitivamente i battenti dopo tanti annunci di crisi e le prime linee di produzione già delocalizzate in Romania. Un pugno di personaggi incerti tra il rincorrere l’ultima chance, qualunque cosa ciò significhi e costi quel che costi, e smetterla del tutto di coltivare anche la più pallida illusione in un avvenire, non solo migliore ma anche solo esistente, un futuro tout court. Sullo sfondo, una provincia che ha perso da un pezzo la sua identità industriale, i suoi sogni, le sue ambizioni e resta a galla a fatica, aggrappata ad una malinconica nostalgia di sopravvivenza immersa nella noia e affogata nell’alcol. Come osserva una delle protagoniste, «un velo di nebbia stagnava sui prati con mollezze da danzatrice orientale. Gli abeti ergevano le loro guglie scure contro il cielo bianco e vicinissimo. Era bello; faceva venire un po’ voglia di tirarsi un colpo in testa, ma era bello».

Lo scrittore Nicolas Mathieu

È un romanzo nerissimo, cupo, dove l’inquietudine del presente fa il pari con il riemergere dei fantasmi del passato, in questo caso il terrorismo razzista dell’Oas nell’Algeria francese, e nella stessa «madrepatria» della fine degli a anni Cinquanta, l’esordio narrativo di Nicolas Mathieu – Come una guerra (Marsilio, pp. 398, euro 18, 50, traduzione di Margherita Botto) – proposto anche ai lettori italiani sulla scorta del successo di E i figli dopo di loro (Marsilio, 2019), con cui lo scrittore dei Vosgi si è aggiudicato nel 2018 il prestigioso Premio Goncourt.

Ma se in quel caso si trattava della perdita delle illusioni e dei sogni infranti di tre giovani della Lorena cresciuti, all’inizio degli anni Novanta, mentre le grandi ciminiere della zona smettevano di pompare gas di scarico e polvere di metalli, lasciando però intere comunità senza prospettive e una storia condivisa con cui raccontarsi, qui la deriva non è solo annunciata ma vi siamo letteralmente immersi, pagina dopo pagina. E la sconfitta sociale si traduce immancabilmente in violenza. «La sfida è fare sociologia con una pistola sul tavolo», ironizza lo stesso Mathieu che paga con questo romanzo un debito di gioventù contratto con i noir di Jean-Patrick Manchette.

Tutto ruota intorno alla Velocia, la fabbrica locale di componentistica per automobili dove i diversi personaggi si incontrano, stringono legami, a volte inconfessabili complicità. Il «male» prende forma, si diffonde come un’infezione destinata a corrodere dall’interno l’anima quando ancora nei capannoni delle officine il lavoro riempie le giornate e anche i turni di notte per ingrossare le buste paga a suon di straordinari: l’annuncio della prossima chiusura non farà che versare ulteriore benzina su un incendio che già cova sotto traccia. Alla fine, nessuno ne uscirà indenne. Né Martel, il responsabile del Consiglio di fabbrica che accumula debiti che non potrà mai saldare per pagare la casa di riposo alla madre malata di Alzheimer; né Bruce l’interinale, body-builder con il corpo deformato dagli steroidi che oscilla tra Tony Montana e la rivolta, i soldi facili e la lotta finale; né Patrick, operaio che non sa più come parlare a suo figlio dopo la morte della moglie. E forse nemmeno Rita, l’ispettrice del lavoro con qualche simpatia per la Cgt, allo stesso tempo ferita e ribelle che sembra procedere sempre con il coltello tra i denti.

La violenza sociale, il declassamento chiamano altra violenza che si traduce però in forme inattese, contorte, mostruose. Il canone del noir non serve solo a scandire il ritmo della storia, ma definisce le proporzioni della catastrofe che si annuncia. La lingua del romanzo si fa così affilata come una lama, accompagna con apparente nonchalance il precipitare degli eventi, il cortocircuito che si è andato preparando pian piano. Il dramma si delinea in fotogrammi progressivi, forse non a caso visto l’interesse, e gli studi di cinema compiuti dall’autore a Metz; dal libro è stata tratta anche la serie omonima – nell’originale francese Aux animaux la guerre -, diretta da Alain Tasma, interpretata, tra gli altri, da Roschdy Zem, Olivia Bonamy, Florent Dorizon e trasmessa da France 3 nel 2018.

Ma c’è anche altro. Per Nicolas Mathieu dare voce a questi personaggi significa operare una sorta di «restituzione» della realtà ai protagonisti di quel mondo della provincia un tempo operaia del Nord-Est del paese – lo scrittore è nato a Épinal, nei Vosgi – che ne sembrano essere stati privati. Non c’è spazio per la nostalgia né per il rimpianto per ciò che è andato perduto, quanto piuttosto per la ricerca di un’etica del «raccontare». «È un desiderio che mi viene dai grandi del passato che ammiro di più: Céline, Flaubert, Piallat – spiega Mathieu – Dietro tutto questo si cela una sorta di rabbia, di desiderio di disvelamento. Vorrei solo “togliere il belletto” al volto della nostra civiltà. Il realismo non è solo descrittivo. È analitico. Cerca di mettere in discussione le apparenze e le favole che ci raccontiamo».