Nicola Tranfaglia, morto ieri all’età di quasi 83 anni, evoca molte cose e tante ragioni. Queste ultime, soprattutto, legate a più età intellettuali, comunque tutte connesse alla storia repubblicana, dagli anni Sessanta in poi. Quindi, ai suoi innumerevoli tornanti, di cui è stato un cronista e soprattutto biografo. Nato a Napoli – che è non solo un luogo della geografia italiana ma anche e soprattutto uno spazio della cultura nazionale, come tale destinato a lasciare impressa di sé una impronta profonda in quanti, ancora oggi, vi si formano – si laureò nella medesima città, nell’oramai lontano 1961.

NON ERA UNO STORICO, in origine, ma un giurisperito, la qual cosa, a conti fatti, conterà non da poco nel suo approccio ai fatti della contemporaneità. Non di meno, la sua tesi di laurea riguardava la Corte costituzionale, le cui piene prerogative avrebbero avuto pieno riconoscimento solo una decina di anni dopo, successivamente alle timide riforme già intervenute degli anni ’50. Non a caso – infatti – Tranfaglia, nei suoi innumerevoli saggi dedicati a quello che una volta ebbe modo di definire compiutamente come «labirinto italiano», non si dedicava solo alla denuncia delle incompiutezze del nostro Paese, in ciò assecondando la vulgata azionista, nella quale pur si riconosceva, ma anche al riscontro delle opportunità di evoluzione e di trasformazione presenti in Italia.

A Torino, dove ben presto pervenne materialmente, ricoprendo quindi l’incarico di ricercatore presso la Fondazione Luigi Einaudi, a tutt’oggi vivace fucina intellettuale di studiosi sospesi tra accademia, pubblicistica e libere professioni (una sorta di crocevia tra istituzioni statali e mondo dell’intellettualità senza vincoli che non siano quelli della ricerca fine a se stessa), cui fece poi seguire la collaborazione con un intellettuale libero e inclassificabile qual era Alessandro Galante Garrone, «sacerdote» della tradizione liberale progressista in terra sabauda. Per quell’epoca, altrimenti militante, quindi propensa a facili, drammatiche ma anche risolutive divisioni, tutto ciò costituiva un fatto non solo irrituale bensì non metabolizzabile nelle dicotomie che attraversavano le diverse stagioni dei «movimenti».

L’INTERA TRAIETTORIA di Nicola Tranfaglia, peraltro, si rivela irrisolta tra la propensione alla ricerca accademica, nella quale si riconosce appieno soprattutto per l’intesa attività didattica così come per i tanti ruoli istituzionali svolti nel trascorrere del tempo, e il pari bisogno, molto spesso impellente, quasi al limite del soverchiante, di dare corpo e fiato ad un respiro non tanto polemico quanto critico, attraverso l’attività di giornalista – di fatto la sua vera indole, non esclusivamente professionale bensì umana.

Alcuni non comprenderanno mai, fino in fondo, questo felice bipolarismo. E tuttavia tutta la sua produzione intellettuale si risolve in una tale, complessa, insaziabile rete di stimoli e indirizzi. Sul piano universitario, dopo la libera docenza acquisisce infatti l’ordinariato di storia contemporanea, sempre a Torino, dove culturalmente si confronta con il solido spirito azionista. Che informa di sé, più della stessa scuola comunista, l’impronta della cultura cittadina, tra fabbriche, scuole, università e società civile. Inutile enumerare, a tale riguardo, i molteplici incarichi assunti nel corso del tempo, a livello locale come in quello ministeriale, dalla presidenza della facoltà di Lettere e filosofia – un tempo, al pari di Magistero, vero e proprio «feudo» nella formazione di intere generazioni di studiosi – alle diverse partecipazioni negli organismi di riforma affannosamente ideati dai dicasteri ministeriali che, dalla fine degli anni Ottanta si sono succeduti, esprimendosi nel tentativo di «riformare» il magma accademico. E non solo esso.

A FIANCO DI CIÒ, per l’appunto, si poneva comunque una più ariosa e meno barocca attività culturale, collaborando agli istituti storici, come la Fondazione Gramsci, così – del pari – come a complesse attività editoriali, molto in voga negli anni Settanta, insieme, tra gli altri, a Massimo Firpo, Valerio Castronovo e ad altri nomi all’epoca di talento e grande accredito. Non si è peraltro risparmiata l’attività di deputato nella sinistra parlamentare, sia pure con esiti altalenanti e, frequentemente, insoddisfacenti.

Detto questo, cosa rimarrà di Nicola Tranfaglia? Inutile celebrare esequie di comodo. L’omaggio si impone ma, da sé, non è sufficiente. Al pari di altri autori e studiosi si è mosso efficacemente nella descrizione dell’anatomopatologia della seconda metà del secolo trascorso. Mentre invece, senza alcuna impietosità di fondo, ha faticato a cogliere le nuove configurazioni del tempo che si sta pronunciando. Beninteso, ciò non configura colpa alcuna bensì il segno di un difficile transito intergenerazionale. Quel che comporterà, lo diranno i tempi a venire. Per i quali Tranfaglia ci consegna comunque un lessico.