La guerra del Vietnam oppure la guerra americana in Vietnam o anche la seconda guerra d’Indocina o più semplicemente il Vietnam. Esistono decine di modi per chiamare il conflitto che ha marcato più di tutti il nostro immaginario dopo la Seconda Guerra Mondiale. La costellazione delle narrazioni sul Vietnam è sconfinata.

L’ultimo evento storico moderno ma non contemporaneo, la guerra americana in Vietnam ha segnato un’epoca, ha creato il primo immenso movimento di contestazione pacifista mondiale, ha contribuito alla diffusione delle prime immagini fotografiche shock capaci di modificare l’opinione pubblica su scala globale, ha inventato la macabra idea di ecocidio, ha fatto si che i maggiori registi di Hollywood creassero un nuovo filone cinematografico. In quell’epoca fu tutto.

Il trambusto che Il Vietnam ha generato sembrava dunque inarrestabile. L’eco delle sue distruzioni e delle riflessioni che produceva attorno a se, sembrava doverlo insignire al grado di evento epocale, di spartiacque fra moderno e contemporaneo. Una nuova coscienza dell’evento bellico come strumento di offesa dell’umanità tutta sembrava destinata a sostituire le ottocentesche narrazioni delle guerre. Il pacifismo avrebbe dovuto redimerci. Invece, complice l’accelerazione delle connessioni planetarie seguita al progresso tecnologico vertiginoso e l’inizio di un nuovo oscurantismo che gradualmente ha riportato diligentemente il discorso sulla guerra verso termini decisamente più reazionari e poco illuminati, spartiacque non fu.

Ma è una caso di studio estremamente interessante, complice la sua media distanza temporale da noi, per indagare la nostra (di tutti) memoria della guerra.
Così oggi il Vietnam è ovunque ma anche da nessuna parte. È nell’immaginario di alcuni (soprattutto se non troppo giovani e magari cinefili) ma svanita dal nostro presente che non accetta problematiche lontane dal mito dell’attuale. Il nostro presente che benedice un susseguirsi di immagini di morte, come fossero una storia di Instagram. Le vediamo un attimo e poi puff… scomparse e sostituite da altre.
La guerra diventa così un fatto astratto, liquido, che si tende a dimenticare (a meno di non essere storici o professionisti del ricordo) nel momento stesso in cui comincia quella seguente. Una guerra sostituisce l’altra, nella nostra memoria collettiva. I fatti si incatenano, diventano troppi o troppo dolorosi e resta così un’idea sfumata, legata magari a un’immagine di un uomo che muore, di una donna che grida in mezzo alle macerie, di un bimbo annegato…

La guerra in Vietnam è terminata da più di quarant’anni. Oggi le strade di Ho Chi Minh City sono un trambusto di macchine scintillanti e grattacieli che spuntano senza sosta. La metropoli moderna è in costruzione. I rooftop bar sono pieni di vietnamiti e stranieri che bevono drink sofisticati e ammirano uno skyline mutevole e affascinante. Un ritratto di zio Ho sorridente fa da contraltare all’apertura di un nuovo Starbucks. Un miscuglio di miti incredibile ma indecente, eclettico e postmoderno. Senza ancora un senso, come lo è forse la nostra epoca.

Lontano dalle luci del presente, resta un conflitto che ha concluso soltanto l’epoca delle sue battaglie (come tutte le guerre, probabilmente). Resta la diossina nella terra, resta un territorio interrotto, centinaia di musei delle armi, ordigni inesplosi in campi coltivati, restano le buche delle bombe. La memoria del sangue che impedisce alla dolcezza di attecchire. Restano i testimoni e resta anche il sentimento di chi è nato dopo il 1975. La guerra è paura. Restano gli occhi di una signora che «saltava sui cadaveri» per salvarsi.

Resta anche la memoria dei soldati americani che combattevano una guerra inspiegabile tatticamente, per «liberare» il mondo dal comunismo. Ragazzini lanciati nella giungla, divorati dalle sanguisughe che non capivano il senso degli ordini dall’alto che arrivavano come scherzi. Ce lo ricordano i cronisti e i romanzieri del Vietnam. Greene, Herr, Marlantes e gli altri. No sense.
E infine la memoria di chi ha vinto. Una memoria rarefatta che cede di fronte al Made in Vietnam. Un misto di grazia confuciana e inevitabilità del commercio rendono, a volte, persino sorridente, il ricordo del sangue.

Like the rain falling from the sky. Il titolo di questo mio lavoro che presento qui in piccola anteprima sulle pagine dei cari amici del Manifesto, è una frase pronunciata da un vecchio contadino incontrato a Can Gio, nel sud del Vietnam. Una frase quasi poetica. «Era come la pioggia che cade dal cielo». Questo anziano signore aveva confuso l’evento più naturale al mondo, con gli spargimenti di Agente Arancio. Il più grande tentativo di ecocidio della storia dell’umanità.

Un paradosso crudele. Il suo mondo, la sua natura spazzati via dalla pioggia.
Ma la guerra forse è proprio questo. Un paradosso. Il rovesciamento delle categorie con cui affrontiamo la quotidianità. O almeno apparentemente, volendo essere più realisti.

Ritrovare le parole del signore di Can Gio, è anche un modo per ritrovare la nostra memoria della guerra, mi viene da pensare. Una memoria che tende inesorabilmente a frammentarsi, a disperdersi nel turbinio della quotidianità, nella sovrabbondanza di visioni di morte (dal filo di Facebook ai videogame) nella distanza da noi, nella soggettività di ciascuno e nel mistero dell’oblio. Dobbiamo perciò coltivare continuamente e volontariamente il ricordo giusto (ne retorico, né ideologico né celebrativo). Il ricordo umano è l’unico antidoto all’ingiustizia della distruzione dell’umano e del pianeta.

La riscoperta di una memoria complessa, dialogante, necessaria che contiene tutte le singole esperienze, tutte le rabbie e gli affronti subiti dal fuoco amico e non, tutti gli amori delusi, le vite interrotte, i sogni spezzati e tutte le contraddizioni inesplose, è indispensabile per riformulare una narrazione evoluta di quello che la guerra è stata, è e sarà. Una nuova critica della distruttività umana ha un disperato bisogno di memorie moltiplicate per mille che si vadano a sommare alla cronaca storica degli eventi. Perché mai e poi mai «si dovrebbe dare per scontato un noi quando si tratta di guardare il dolore degli altri».