C’è un americano che va in gol in Afghanistan, a oltre dodici anni dall’invasione americana nel Paese islamico. Perché il pallone sa anche unire, password d’accesso ideale per ricostruire il puzzle della tolleranza (in Italia spesso lo si dimentica), scrollarsi di dosso le barriere religiose e culturali tra arabi e occidentali. Nick Pugliese, 23enne statunitense del Massachusetts ha trascorso il Natale a casa, Rochester, nello stato di New York. Con il pensiero fisso al Ferozi Kabul FC, il club afghano della Kabul Premier League in cui gioca da alcune settimane.

Lui, centrocampista difensivo di buon livello, è il primo americano nel calcio professionistico afghano. Cognome italiano ereditato dai bisnonni, emigranti siciliani finiti poi nella Grande Mela, Pugliese è uno yankee ben integrato a Kabul. Anzi, una stellina del calcio. Più di un anno fa, il balzo sorvolando l’Oceano Atlantico. Dopo la laurea in scienze politiche e filosofia al Williams College of Massachusetts – studente da alta media accademica e capitano della squadra di calcio dell’università con il sogno della Major Soccer League nel cassetto – Pugliese accettava l’offerta di lavoro della Roshan. Il primo gestore telefonico afghano. Nuova esperienza di vita, sete di conoscenza, uno stipendio che fa gola: di corsa a Kabul.

«Dopo la laurea ero interessato a lavorare in un’azienda di un paese emergente. Attraverso la mia università sono arrivato alla Roshan nel giugno del 2012. Però mi mancava lo sport, impeditomi a causa delle rigide misure di sicurezza». Arrivava presto il turno del calcio. Dopo varie insistenze, Nick otteneva di poter giocare in una club dilettantistico locale ogni 15 giorni. Ma niente allenamenti al Ghazi Stadium, impianto della capitale: troppo pericoloso per la sua incolumità fisica. Fino a quando un compagno di squadra lo presentava all’allenatore del Ferozi. Allenamenti in segreto, i primi permessi dell’azienda, in un battito di ciglia arriva la proposta di entrare nella rosa del club. Per 300 dollari al mese, nulla a che vedere con il salario che gli passava la Roshan (tremila dollari mensili più benefit), oppure con il minimo salariale garantito a un calciatore professionista nella Mls.

«Mi sono licenziato dalla Roshan perché non sarebbe stato possibile fare entrambi i lavori» spiegava il giovane americano a Sport Illustrated. Senza pentirsi, una telefonata a casa, negli Usa, per gettare nello sconforto i familiari, un rapido saluto alla scrivania, si passava a calzoncini e maglietta. Accettando di allentare le misure di sicurezza per vivere in una comunità, tra gli afghani, usando inglese e dari, lingua locale. Vivendo l’energia, la vita della capitale. E il calcio era il link giusto. Con i prevedibili rischi di un cittadino americano in Afghanistan: rapimenti, pericolo suicidi. E le notti insonni dei genitori, a migliaia di chilometri di distanza. «Non escludo anche il rischio di essere rapito, ovviamente ciò che all’inizio preoccupava me ed i miei genitori. Eppure, in generale, posso dire di sentirmi sicuro» ripeteva Pugliese a SI.

Lo scorso maggio vinceva la sua prima partita nella Kabul Cup. Ma Pugliese era soprattutto testimone della rinascita del calcio nel Paese arabo. Della partita tra Afghanistan e Pakistan (3-0), l’incontro dell’amicizia – mancava da 36 anni per i rapporti tesi tra i due Paesi per le attività talebane ai due lati della frontiera – dello scorso 20 agosto, davanti a seimila persone in uno stadio esaurito. La prima prova internazionale della Nazionale afghana dopo dieci anni. L’ultima risaliva al 2003, sfida con il Turkmenistan. Poi, il successo della Nazionale sull’India, nella finale della South Asian Football Federation Championship. Con il premier Hamid Karzai che abbracciava i calciatori di ritorno a Kabul, gli stessi atleti che andavano a festeggiare al Ghazi Stadium, poco prima utilizzato dai talebani per le esecuzioni. E una festa infinita per le strade, dalla capitale a Kandahar, città vittima del regime talebano. «I calciatori ballavano, così come la gente per strada, io stesso ballavo, c’era felicità ovunque» raccontava l’americano dal suo blog. Una piccola finestra occidentale sul mondo arabo.