«Solo quando lavoro, sono felice…» è un motivetto che rimane in testa quello con cui si conclude l’omonimo spettacolo di Niccolò Fettarappa e Lorenzo Maragoni. Di recente debutto a Carrozzerie n.o.t a Roma, è un atto di accusa alla società contemporanea basata sull’autosfruttamento per mezzo di quella onnipresente «macchina del capo», il computer. È il secondo lavoro di Fettarappa – dopo Apocalisse tascabile, con cui ha vinto il premio In-box -, classe 1996, drammaturgo regista e attore, porta sulla scena una visione critica e politicizzata, nutrita però da una scrittura ironica e da una grande energia sul palco, «una detonazione invece di una liberazione».

«Persino l’apocalisse è diventata un brand» hai detto in passato. Come affronti, nella tua scrittura, questo processo di assorbimento del linguaggio da parte del mercato?

A me interessa la lingua del presente, ed è una lingua estremamente inquinata da contenuti pubblicitari e mediatici. La sfida poetica è accogliere questi materiali spuri, portarli a teatro e dargli un nuovo valore. Un po’ come faceva la pop art: Roy Lichtenstein prendeva l’oggetto feticcio del proprio tempo, la merce, per zoomarla fino a renderla irriconoscibile. Un lavoro non dissimile a quello che facevano gli artisti medievali con il crocifisso. Il mio è un linguaggio specchio, mimetico, che restituisce al mittente i contenuti che trasmette.

Ti muovi tra due piani: la serietà del contenuto e la comicità della forma.

Il teatro che mi interessa ha una vena politica e si confronta con la società piuttosto che con l’individuo isolato dal contesto storico in cui vive. Quello intimista e lacrimoso non fa per me. Anche il teatro politico può avere un effetto catartico e terapeutico, ma non è quello che vorrei ottenere con i miei spettacoli. Piuttosto che svuotarsi dei propri problemi, meglio complicarsi la vita, ma con un desiderio di rivoluzione.

Che ruolo ha l’improvvisazione per te?

È fondamentale, è un momento di ossigenazione. Il testo deve prevedere dei buchi in cui l’attore può inserirsi e portare sulla scena quell’istanza che si genera nell’incontro con il pubblico, è come un cortile di gioco fuori da un palazzo.

Il tema del lavoro ti sta a cuore, qual è il tuo punto di osservazione?

La questione lavorativa viene spesso rimossa dal discorso pubblico, vive ormai una lunga fase di precarizzazione ma allo stesso tempo ci si aspetta che la professione ci piaccia e che definisca la nostra identità. Il lavoro è così un luogo di investimento di pulsioni libidiche del soggetto. Ci siamo raccontati che diventare capi di noi stessi sarebbe stata una svolta positiva, mentre c’è stato solo un passaggio di frusta. La retorica californiana del «se vuoi puoi» porta ad avere come nemici solo se stessi e a non riconosce che non partiamo tutti dalle stesse condizioni. Credo poi che in questo senso il mondo del teatro sia molto pericoloso perché è composto da lavoratori appassionati, e ciò li rende estremamente ricattabili. Ma è anche una realtà spesso abitata da persone privilegiate che interrogano poco la propria classe di provenienza, universalizzando problemi borghesissimi. Anche il mio teatro forse può essere definito borghese, ma almeno cerco di entrare in polemica con il mio linguaggio. Credo che per essere sinceri a teatro bisogna tradire la propria classe di provenienza e i suoi interessi.

Di cosa parlerà il tuo prossimo spettacolo?

Dell’addomesticamento delle pulsioni di rivolta della mia generazione, intrappolate nella creazione di sogni imprenditoriali e start up. Si chiamerà La Sparanoia ed è prodotto da Sardegna Teatro.