Sulla rivista online Brittle Paper, dedicata alla letteratura africana, è appena uscita una lunga conversazione con Ngũgĩ wa Thiong’o. Da una decina d’anni ormai il nome del più importante tra gli scrittori africani viventi compare tra i favoriti per il Nobel ed è probabile che l’intervista sia stata concepita con l’idea che finalmente nel 2020 gli accademici svedesi avrebbero puntato il loro sguardo verso l’Africa (i premiati nel continente sono stati in tutto tre, e uno soltanto nero, Wole Soyinka, nel 1986).

Invece no, di nuovo a Stoccolma hanno deciso altrimenti. E dunque il dialogo tra Ngũgĩ e lo scrittore kenyota Billy Kahora – ex direttore editoriale di Kwani?, bella rivista influente nell’Africa anglofona dei primi anni Duemila – ha il sapore di un risarcimento, un omaggio dovuto a un grande autore che da noi resta poco noto fuori dalla cerchia degli africanisti, a dispetto delle traduzioni in italiano dei suoi libri.

Romanziere, saggista, drammaturgo, poeta – Ngũgĩ è tutto questo, ma è pure, nel ritratto con cui Kahora precede l’intervista, un uomo sorprendentemente piacevole e garbato: «Anche dopo settant’anni di scrittura, dopo essere stato imprigionato dal primo regime del Kenya e costretto all’esilio da uno successivo, anche dopo la recente diagnosi di una malattia terminale, c’è poco in lui dell’esibita scontrosità per cui sono famosi tanti scrittori della sua generazione… la curiosità, il senso dell’umorismo, la sua gentile fermezza non lo hanno mai abbandonato in queste esperienze difficili».

Non solo: celebre, sul versante teorico, per essere stato tra i primi ad affrontare criticamente l’universalità del «canone occidentale» con i saggi di Decolonizzare la mente (usciti in originale alla metà degli anni Ottanta), Ngũgĩ non teme di riconoscere il ruolo di quel canone: «Amo la frase di Whitman: contengo moltitudini. Un autore, o se vogliamo noi umani, conteniamo moltitudini. Tutte le mie influenze mi rendono lo scrittore che sono, a partire dai racconti orali che ascoltavo nell’infanzia e che sono stati i più formativi e durevoli. Ma anche le storie della Bibbia, e in particolare del Vecchio Testamento, hanno nutrito la mia immaginazione. E naturalmente il canone inglese, da Shakespeare a Dickens, DH Lawrence e RL Stevenson. Poi gli scrittori africani, caraibici, afroamericani. E la letteratura in traduzione: i russi, per esempio, o i greci. Sì, contengo una moltitudine di influenze. L’immaginazione è il calderone delle streghe di uno scrittore. E se dovessi scegliere un solo autore, indicherei Conrad».

Aperto al mondo, Ngũgĩ, ma (ovviamente) non pacificato: «La lotta è centrale nel mio modo di vedere le cose. Lotta all’interno del corpo umano; lotta con la natura; lotta con gli altri umani. Senza lotta non c’è vita. Leggere le opere di Hegel, Marx e Engels ha acuito questa prospettiva… Marx ci apre gli occhi sul modo in cui funziona questa società, ci dice: se volete capire la società, guardate il modo in cui la ricchezza si genera e si spartisce». Inutile dire che Ngũgĩ gli occhi li tiene aperti, e alla globalizzazione oppone «il globalismo, l’unità consapevole di tutti i lavoratori del mondo». Residuato d’altri tempi? «Le istituzioni finanziarie globali possono avere le radici in Occidente, ma i loro tentacoli sono ovunque» e «gli oligarchi del petrolio che distruggono l’ambiente sulle coste americane sono quasi di certo gli stessi che lo fanno in Africa, Medio Oriente e Sudamerica».

E tuttavia il finale non è buio, perché a un giovane scrittore africano che gli chiedesse consiglio, Ngũgĩ direbbe: «Scegli una lingua (africana, spero). Scrivi. Scrivi ancora. Scrivi ancora. Ce la farai».