Harvard 1960, un giovane e brillante ricercatore in psicologia costruisce meticolosamente la sua carriera accademica. Richard Alpert, nato a Boston nel 1931 da una famiglia ebraica dell’alta borghesia, era attraente, un po’nerd, vestiva con eleganza e arrivava al campus sfrecciando alla guida di una Mercedes, o su una motocicletta Triumph. I suoi corsi erano molto seguiti e amati dagli studenti: Freud e la motivazione umana, Sviluppo della personalità e psicologia clinica. Richard, però sotto sotto, soffriva della sindrome dell’impostore; sentiva che qualcosa di molto più profondo nell’esperienza umana gli sfuggiva. Se le teorie che insegnava erano valide, perché non si riflettevano nei suoi comportamenti ed in quelli degli altri ricercatori? Il giovane dottor Alpert era tendenzialmente onesto con se stesso e molto curioso.

Si era sottoposto a un’analisi freudiana durata cinque anni, durante la quale, più volte, conoscendo molto bene il lavoro di Freud, aveva fatto notare all’analista che le sue interpretazioni non erano corrette, il tutto per la modica cifra totale di venticinquemila dollari. Guardando a se stesso e agli altri colleghi, Richard continuava a vedere un cumulo di nevrosi. Nonostante i dubbi però la sua carriera accademica procedeva a gonfie vele. Aveva un ufficio spazioso, tutto per sé, un ampio numero di ricercatori che lavoravano sotto la sua guida.

Studente pilota
Il piccolo studiolo buio alla fine del corridoio era stato recentemente occupato da un altro giovane docente, appena tornato da un giro dell’Italia in bicicletta. Era un irlandese gioviale che amava bere e divertirsi, Richard ne fu subito incuriosito; si chiamava Timothy Leary. I due iniziarono a uscire insieme la sera a bere. Verso la fine dell’anno accademico, Tim annunciò che quell’estate sarebbe andato in Messico. «Vengo anch’io! Possiamo volare lì con un piccolo aereo da turismo, guido io!» disse subito Alpert, sapendo che aveva esagerato. Aveva un brevetto da «studente pilota» che non gli avrebbe permesso di volare senza un altro pilota professionista. In segreto Rich completò il corso ottenendo il brevetto pieno. Tim lo aveva preceduto in Messico.

Con il brevetto da pilota fresco di giornata Richard non trovò nessuno che gli affittasse un’areo, ma non si perse d’animo, ne comprò uno usato. Riuscì a farlo sollevare da terra e a partire. Dopo un viaggio che lui stesso definì terrorizzante, atterrò a Cuernavaca. Tim gli raccontò subito di un’esperienza straordinaria. Una donna, una «curandera», che viveva sulle montagne, conosciuta con il nome di Juana la pazza, gli aveva fatto provare i funghi allucinogeni; durante il viaggio aveva avuto visioni e intuizioni eccezionali. Rich ne fu invidioso, moriva dalla voglia di provare, ma Juana la pazza era introvabile. Trascorsero un po’di giorni tra Tepsilan e Cuernavaca nell’eventualità che Juana potesse palesarsi, per poi delusi risalire sul piccolo aereo, questa volta, con anche un iguana a bordo, rientrarono negli Stati Uniti.

Rich trascorse un breve periodo a Berkeley, mentre Tim tornato nello studiolo di Harvard, si mise furiosamente a ricercare gli agenti chimici degli allucinogeni e i loro effetti. Quando Richard Alpert rientrò a Harvard, Tim si era procurato alcune dosi di psilocibina, il principio attivo dei funghi allucinogeni.
Il 6 marzo 1961 ad Harvard si era posata la nevicata più grande degli ultimi anni.

A Milano io avevo solo sei giorni e non ricordo che tempo facesse.
Era sabato, quella sera Richard cenò dai suoi, poi, caracollando nella neve alta andò a casa di Timothy che abitava poco lontano.

Esperienze dissociative
Nella cucina calda e illuminata, Rich, Tim e un piccolo gruppo di amici si calarono una dose di psilocibina. Gradualmente entrarono in uno spazio senza tempo. Richard si staccò dal gruppo, andò a sedersi da solo nel salotto semi buio, un po’ di luce filtrava dai lampioni della strada, la neve cadeva fitta. Era bellissimo. Richard vide un’ombra, la sagoma di una figura in piedi, strinse gli occhi per capire meglio chi fosse, poi capì che era semplicemente l’ombra di se stesso. Da un punto di vista psicologico sapeva che stava vivendo quella che viene chiamata «esperienza dissociativa». La figura in piedi era la rappresentazione di se stesso in tutta la sua «professoralità», Richard decise di disfarsene, ma prontamente, emerse la sua «amabilità», poi la sua «saggezza»; ad una, ad una, osservò dissolversi tutte le qualità che formavano il costrutto della sua personalità sociale. Poi arrivò il panico, la paura di stare perdendo tutto, il sudore gli incollava la camicia addosso, il respiro era affannato, emerse il senso di colpa. «Ecco a cosa porta giocare con gli psichedelici, ho dimenticato completamente chi sono, verrò ricordato per questo nella storia clinica».

Finalmente riuscì a piazzare due respiri profondi, sentì che l’effetto della sostanza iniziava lentamente a virare, una voce calma, persino un po’ scherzosa, da dentro, chiese «A chi sta succedendo tutto questo?». Era quello che Richard definì «il punto di consapevolezza», un «punto» che non aveva riferimenti nel corpo, nella personalità, nei ruoli sociali, eppure era un punto di grande lucidità e chiarezza. Richard fu invaso da una sensazione di gioia profonda, esilarante; balzò in piedi e corse fuori nella neve, si muoveva danzando con i grossi fiocchi che continuavano a cadere, arrivò a casa dei suoi genitori, e con la stessa gioia iniziò a spalare la neve tutt’intorno alla proprietà. La luce di una finestra al secondo piano si accese, i genitori si affacciarono guardando la scena, allibiti, il loro figlio professore in piena notte a spalare la neve in maniche di camicia. La madre gridò «Che fai idiota?!» Richard guardò in alto, la voce che aveva parlato era una voce alla quale aveva sempre risposto, quella del condizionamento esterno, ma ora da dentro sentiva un’altra voce che diceva: «Non c’è niente di male a spalare la neve nel cuore della notte», così felice riprese a spalare e a danzare nella neve.

A Harvard, nella notte innevata del 6 marzo 1961, mentre io a Milano, nel mio piccolo, emettevo i primi vagiti di insoddisfazione verso la famiglia e le convenzioni borghesi e patriarcali in cui ero nata, Richard Alpert iniziava un percorso che avrebbe cambiato le vite e toccato i cuori di milioni di persone, inclusa la mia.

La cacciata
Quello stesso anno Richard Alpert e Timothy Leary iniziarono ufficialmente, in collaborazione con l’industria farmaceutica Sandoz, una serie di sperimentazione cliniche con psilocibina e più tardi con Lsd. Le sostanze venivano somministrate a soggetti volontari. Durante il viaggio psichedelico i partecipanti venivano «guidati» e osservati. Il programma conobbe un successo eccezionale tra gli studenti, insospettendo gli organi accademici; gli altri corsi del dipartimento di psicologia perdevano iscrizioni a vista d’occhio. Fioccavano le proteste da parte dei genitori che sborsavano esose rette universitarie, per vedersi i figli completamente trasformati dai viaggi psichedelici.
Nel 1963 Richard Alpert fu ufficialmente cacciato dall’università. Leary, alla fine del suo mandato si dimise volontariamente, lasciando ad Alpert il primato di essere il primo professore sbattuto fuori da Harvard che la storia ricordi.
Fu indetta una conferenza stampa: televisioni, inviati radio, fotografi. La massima umiliazione per un ricercatore, essere cacciato pubblicamente dall’università. Richard leggeva negli occhi di tutti, puntati su di lui, una sola parola: «perdente». Dentro di sé però era sostenuto dall’integrità delle motivazioni della sua ricerca, il desiderio di esplorare i diversi piani di coscienza dell’esistenza umana in tutta la gamma delle loro possibilità, ma capiva anche l’enormità del peccato capitale per cui ora lo punivano: aveva introdotto nel tempio della razionalità e della scientificità oggettiva, lo studio di stati di percezione alterata.

L’establishment accademico li accusava di non essere veri scienziati poiché sperimentavano la sostanza in settings non considerati ortodossi e soprattutto sperimentavano su se stessi, facendo così conflagrare la separazione tra il soggetto osservante e l’oggetto osservato, infrangendo un tabù allora molto forte nella comunità scientifica. La divisione tra soggetto e oggetto garantiva l’autorità della scienza, mascherata da una presunta «oggettività», strumento potente nelle mani del patriarcato. Quest’atteggiamento così rigido e autoritario, è stato radicalmente rivisto nei decenni successivi, alla luce dell’evoluzione e del recupero delle teorie di fisica e meccanica quantistica, secondo cui il semplice atto di osservazione di un fenomeno porta inevitabilmente dei cambiamenti nel fenomeno osservato.

Dopo la cacciata da Harvard e la pubblica umiliazione, Alpert e Leary si rifugiarono in una dimora di campagna in Upstate New York, dove iniziarono un esperimento di vita comune, continuando il loro laboratorio psichedelico. Allen Ginsberg and William Burroughs ne erano frequentatori abituali.

Confini allargati
Richard Alpert iniziava ad avvertire nuovamente una certa insoddisfazione; gli psichedelici non gli fornivano la mappatura completa della coscienza umana che andava cercando, mancava qualcosa. Nel 1967 parte per l’India, pare influenzato dai racconti di Ginsberg. L’idea era di continuare a sperimentare con gli allucinogeni in una società dove l’espansione della coscienza, la ricerca del continuo allargamento dei confini dell’esperienza umana, sono già culturalmente presenti anche nella vita quotidiana. In India, Richard, che con sé portava alcune dosi di Lsd, sperava di trovare qualcuno che ne sapesse più di lui sull’argomento. Così fu.

Arrivato a Delhi incontrò un personaggio improbabile, un californiano di Laguna Beach, totalmente atteggiato da Sadu indiano, che andavain giro sotto il nome di Baghavan Das. Richard ne rimase affascinato e decise di seguirlo. Aveva intrapreso un viaggio di più di seimila miglia dagli Stati Uniti all’India per ritrovarsi come guru un californiano biondo e allampanato di 23 anni? L’ex-professore di Harvard girava ora a piedi nudi e pieni di vesciche per le strade di Calcutta, uniche proprietà una piccola borsa e un tamburello tibetano.

Verso il Guru
I due iniziano un pellegrinaggio a piedi da ascetici itineranti. Richard apprende le basi della spiritualità indiana, come vivere nel momento, come usare un mala per la ripetizione dei mantra, come fare un’offerta a una divinità e anche come sopravvivere alla dissenteria. Impara velocemente, ma senza troppa convinzione. Si sente più attratto dalla sobrietà delle pratiche buddiste; il pantheon indiano gli sembra troppo kitsch e colorato, la devozione induista troppo emozionale.

Giunge il momento in cui i due devono rientrare a New Delhi per rinnovare il visto. Baghavan Das scopre che per lui ci sono delle complicazioni. In caso debba lasciare l’India, vuole andare a salutare il suo guru. Alpert rimane perplesso, è la prima volta che sente Baghavan nominare «il suo guru» e non ha nessuna idea di chi possa essere; fantastica che si tratti di un austero lama tibetano. Per il viaggio Baghavan Das suggerisce di chiedere in prestito la Land Rover di un amico occidentale. Richard inizialmente resiste all’idea, teme che la macchina appariscente li inquadri subito come ricchi americani, ma Baghavan non cambia opinione.

La notte precedente al viaggio, Richard si trattiene fuori a guardare il cielo limpido, punteggiato di stelle. Pensa a sua madre morta sei mesi prima in un ospedale a Boston, in quel momento sente con lei una connessione profonda.

La macchina contesa
L’indomani i due si avventurano guidando sulla strada tortuosa di montagna che porta a Kainchi. Quando arrivano a destinazione, una folla di curiosi, apparentemente scaturita dal nulla, come spesso avviene in India, circonda la macchina. Baghavan conosce e saluta molti di loro; subito chiede, dove trovare Baba. Alcune braccia si tendono a indicare un punto sulla collina. Baghavan inizia a correre in quella direzione. Richard lo segue arrancando, perplesso, a piedi nudi sul sentiero di pietre.

Dopo poco si trovarono in una specie di altopiano, un campo che affaccia sulla valle sottostante. Era una tersa giornata d’inverno, al centro del campo, sotto un albero vedono un uomo seduto, la figura massiccia, avvolto in un plaid scozzese, circondato da un piccolo gruppo di seguaci. Sembra la scena di un’antica miniatura. A quella vista, Baghavan inizia a correre a perdifiato, travolto dall’emozione, gli occhi pieni di lacrime, fino a che arrivato vicino all’uomo avvolto nel plaid, gli si getta ai piedi. Il guru gli accarezza ora la testa, di tanto in tanto sollevando gli occhi, lancia sguardi curiosi verso Richard che era rimasto in piedi, sempre più perplesso, comunque deciso a non prostrarsi davanti all’uomo con la coperta.

Il guru gli si rivolse allora direttamente e gli chiese: «Sei venuto con quella macchina grande?». «Oddio, la Land Rover!» pensò Richard con terrore. Sapeva che era stato un errore presentarsi con quella macchina che non era neanche sua, una bella responsabilità! . «Me la regali?», chiese il guru. Richard incominciò a balbettare «Sì, sì te la regala!» gridava ora Baghavan, saltellando su e giù come un bambino eccitato. Il guru rideva, mostrando la bocca sdentata, in verità ridevano tutti, eccetto Alpert. Allora il guru ai suoi seguaci di portare i due nuovi arrivati a mangiare. Fu servito un pasto vegetariano di eccezionale bontà e i due viaggiatori andarono a riposare. In serata il gruppo si riunì. Questa volta Maharaji invitò Richard a sedersi vicino a lui poi, fissandolo dritto negli occhi, con dolcezza disse: «Ieri notte hai guardato le stelle… Pensavi a tua madre». Poi si ritrasse, socchiudendo gli occhi e disse in inglese: «Spleen» – «È morta per via della milza».

Ram Dass
Tutto cambiò. La mente ben allenata di Richard cominciò a correre veloce in cerca di spiegazioni: come faceva Maharaji a sapere? Passò in rassegna tutta la gamma paranoica di possibili complotti, incluso quello che il guru fosse un agente della Cia. Richard non aveva mai detto nemmeno a Baghavan, una parola su sua madre; nessuna delle categorie di pensiero che conosceva era applicabile alla situazione. Dopo quella corsa pazza, finalmente, di fronte all’impossibilità di trovare una spiegazione razionale, la sua mente si arrese; in quello stesso momento Richard si sentì squassare da un dolore violento al centro del petto, come una forte scossa che arrivava dall’interno più profondo del suo essere, cominciò a singhiozzare in un pianto come non aveva mai provato prima. Il viaggio era finito, finalmente era a casa. Allora Richard Alpert scomparve e iniziò la storia di Ram Dass.

Ram Dass non si era dimenticato della domanda iniziale con cui era arrivato in India. Quel mistero della mente che i suoi studi di psicologia e gli esperimenti con gli allucinogeni non erano riusciti a risolvere. Dopo qualche giorno all’Ashram, pensò che probabilmente Maharaji, Neem Karoli Baba, era la persona adatta a cui chiedere. La sera, dopo cena, il guru gli si avvicinò «Hai una domanda da farmi?» disse. Ram Dass si emozionò e confuso, dimenticò la domanda. Il guru parve irritato e chiese: «Dove è la medicina?» Ram Dass non capiva di cosa parlasse. Baghavan gli venne in aiuto. «Forse intende l’Lsd». Ram Dass allora andò alla macchina a prendere, il flacone dove teneva le dosi di Lsd. Il guru domandò se la medicina conferiva potenza. Ram Dass non capì, pensando che si riferisse a potenza fisica; in realtà la parola usata dal guru era «Siddhi» che vuol dire poteri psichici. Maharajii tese la mano con il palmo aperto, Ram Dass vi lasciò cadere una pillola. Ogni pasticca conteneva 300 milligrammi di Lsd purissimo, una dose cospicua per un adulto; il guru ne chiese un’altra, e un’altra, poi strappò dalle mani di Ram Dass la bottiglietta, la svuotò, lasciandosi cadere in bocca tutte le pillole rimaste. Ram Dass guardava allibito, terrorizzato di stare uccidendo il suo maestro, ma anche con la curiosità del ricercatore.

Maharaji chiese: «Quanto ci metterà a fare effetto?». «Circa un’ora», rispose Ram Dass. «Impazzirò?», chiese di nuovo Maharaji. «Probabilmente», rispose Ram Dass. Il guru si fece portare un orologio, entrambe rimasero a fissare le lancette. Alla fine dell’ora Maharaji sembrava assolutamente normale, infatti, chiese: «Hai qualcosa di più forte?». Poi aggiunse: «Rimanere con la mente fermamente concentrata sul divino e più forte di qualsiasi sostanza».

Quando Ram Dass rientrò negli Stati uniti, all’aeroporto di Boston lo aspettava il padre George che vedendolo arrivare con capelli e barba lunga, vestito di bianco, fece finta di non conoscerlo e andò ad aspettarlo in macchina. Prima della partenza Maharaji gli aveva raccomandato: «Non parlare di me con nessuno in Occidente!».

Oltre il materialismo
Ram Dass notoriamente disubbidì influenzando così generazioni di giovani occidentali che cercavano un antidoto al materialismo e al cinismo rampante del capitalismo industriale e post. Il resto è storia.
Ram Dass tiene il primo discorso pubblico post-India, in una chiesa Episcopale del New Hampshire, in cui parla del fallimento delle religioni organizzate nel creare una connessione con la profondità dell’essenza umana e spiega la parola sanscrita «yoga», nel suo significato più comunemente accettato di «unione», unione con l’essenza divina dell’essere.

Nel 1972 Ram Dass va in onda su una popolare radio alternativa di Montreal, la trasmissione conosce un successo strepitoso, verrà replicata da altre radio libere. Molti giovani iniziano a riempire gli zaini e a imbarcarsi su voli stand by per l’India. L’Ashram di Neem Karoli Baba, Ram Dass guru, si popola di giovanotti alti e barbuti e di ragazze occidentali con i capelli lunghi e selvaggi.
Nel 1971 esce in edizione limitata e numerata, il libro di Ram Dass Be Here Now. La prima pubblicazione sulle tecniche e filosofie dello yoga rivolte ai giovani occidentali: in pratica come diventare uno yogi se non sei nato induista. Il libro definito «bibbia della controcultura», venderà più di due milioni di copie. Steve Job dichiarerà che è il suo libro preferito e George Harrison nel 1973 ci scrisse una canzone dallo stesso titolo. Nel libro Ram Dass decifra il codice di complicate dottrine filosofiche soteriologiche traducendole in un linguaggio accessibile e accattivante, quasi pop, filtrato dall’esperienza psichedelica, permettendo, a più di una generazione, l’accesso a una dimensione spirituale altrimenti consentita solo a pochi iniziati.

La morte esiste
Le religioni abramitiche nel corso di millenni di lotte egemoniche per l’affermazione di poteri temporali hanno completamente offuscato e inaridito l’idea di spiritualità. Ram Dass stesso, che si definiva «ebreo da parte dei genitori» racconta di come la conoscenza delle tradizioni religiose indiane l’avesse poi riavvicinato anche all’essenza spirituale delle religioni occidentali, rompendo la barriera di cinismo che le circondava.In India quando chiedevano a Neem Karoli Baba come fare a meditare, il guru spesso rispondeva: «Meditate come faceva Gesù!», provocando una sorta di panico da cortocircuito nel gruppo di giovani alternativi provenienti da famiglie ebree o cattoliche, che avevano percorso diecimila chilometri in cerca della saggezza orientale per sentirsi dire di meditare come Gesù Cristo!

Già prima di partire per l’India Ram Dass era rimasto colpito dal livello di rimozione della morte nella società occidentale. Dopo un concerto, sotto gli effetti della mescalina andò a trovare la madre che stava morendo in ospedale, normalmente una signora borghese molto rigida, era sotto morfina per i dolori. Madre e figlio s’incontrarono così in uno spazio mentale diverso dal solito; nessuno aveva avuto il coraggio di dirle che stava morendo. Ram Dass sente il dovere di dire la verità, i due si trovarono a parlare del «dopo» e in quel momento ritrovano un’intimità e una vicinanza che avevano dimenticato.
Al ritorno dall’India il lavoro con i morenti diventa un capitolo importantissimo nella vita di Ram Dass e nella storia di quello che è conosciuto come «hospice movement».

Nel 1969 esce negli Stati Uniti un libro che farà scalpore, intitolato On death and dying di Elisabeth Kubler Ross. Per la società industriale e post, la sola preoccupazione era la morte del corpo, senza riguardo per mente e spirito; la dimensione dell’anima per quelli che ci credevano, era affidata a riti religiosi ormai svuotati di qualsiasi significato, senza nessuna assistenza psicologica per il morente e i suoi cari. La morte spesso vissuta come una sconfitta della scienza medica, fallimento delle teorie positiviste di cui la cultura occidentale era impregnata.

Nei primi anni settanta, ancora una volta infrangendo un tabù, Ram Dass inizia a tenere conferenze pubbliche sul tema della morte. La generazione che ascoltava era quella della Summer of Love. Viene riscoperto l’antico Bardho Thodol o Libro Tibetano dei morti che fornisce la mappatura del «viaggio» più importante di un essere umano. Ram Dass riconosce in Aldous Huxley, che incontrò personalmente un paio di volte, un maestro nell’esplorazione del territorio misterioso degli stati liminali della mente, un mentore in grado di indicare l’inizio di un percorso. «Lasciati andare tesoro, lascia andare questo povero vecchio corpo…Fallo cadere come una pila di abiti consunti e vai leggera mia cara…verso la pace che vive nella luce chiara», scrive Huxley nel suo romanzo Isola.

Per molti anni Ram Dass lavora personalmente e attivamente al capezzale dei morenti, considerando questo impegno il più importante per la sua evoluzione spirituale.
Nella metà degli anni ’80, con l’esplodere della crisi dell’Aids, la «hospice revolution» si rivelerà ancora più preziosa, soprattutto attraverso il lavoro nella Bay Area dell’organizzazione Livingdying, di cui Ram Dass era stato cofondatore.

Perdita di sé
A nord di San Francisco, il 19 febbraio 1997, il telefono squilla invano nella casa di Ram Dass. Alcuni amici allarmati arrivano nell’abitazione e lo trovano incosciente. Quella mattina Ram Dass si è svegliato incapace di muoversi e di parlare. In ospedale, capiscono che ha avuto una massiccia emorragia cerebrale, gli danno il 10% di possibilità di sopravvivere. Con tragica ironia, il colpo era arrivato mentre lavorava al libro Still Here: Embracing Aging, Changing, and Dying.

Ram Dass sopravvive, ma con l’incognita del recupero, la situazione sembra disperata. Di fronte al dolore fisico e psicologico, anni di pratica e meditazione si disintegrarono, intorno a lui tutti lo commiseravano; allora Ram Dass si decise a parlare col suo guru, di cui teneva l’immagine sul comodino dell’ospedale e finalmente capì. Ram Dass era già una leggenda, ma nei lunghissimi mesi, anni, della riabilitazione e per il resto della sua vita si troverà a dipendere dagli altri per ogni minima cosa, proprio lui che nel 1985 aveva pubblicato un libro intitolato How Can I Help?.

Dopo aver raggiunto quella consapevolezza, il percorso di recupero diventò molto più facile. La parte destra del corpo rimase paralizzata. Costretto la maggior parte del tempo sulla sedia a rotelle e affetto da afasia, ma con le capacità cognitive miracolosamente intatte, Ram Dass continua a insegnare e a scrivere. Il suo messaggio diventerà ancora più profondo e reale.

Nel 2004 torna in India, dove contrae un’infezione molto grave. Sulla via del ritorno si ferma a Maui, Hawaii, per un ricovero di urgenza in ospedale. Ancora una volta si trova tra la vita e la morte. Nell’ospedale è ricoverata anche una donna molto anziana, una personalità spirituale nell’isola, appartiene a un lignaggio sciamanico femminile antico e potente. Le dicono di Ram Dass, lei vuole conoscerlo. Organizzano un incontro. I due si sorridono e restano in silenzio per un tempo molto lungo, poi la sciamana chiede di essere sollevata un po’ di più sui cuscini, l’espressione attenta e presente, inizia a fare dei gesti rituali in direzione dell’oceano e verso Ram Dass, pronunciando parole in lingua hawaiana. È un passaggio di consegne, la donna morirà poco dopo, Ram Dass rimarrà sull’isola per il resto della sua vita.

Nel 2017, cinquantasei anni dopo il primo viaggio psichedelico di Ram Dass, mi ritrovo su una macchina a noleggio, costeggiando il mare, in una strada piena di curve tra la vegetazione lussureggiante di Maui. Seguo le indicazioni che mi ha dato Dassima, svolto a destra su una strada stretta e isolata che si snoda come un nastro bianco a cavallo del verde intenso delle colline affacciate sull’oceano.
Con il favore degli dei, vado in ritiro spirituale a casa di Ram Dass. Il giardino è fitto di piante e fiori tropicali, statue di Hanuman, il dio scimmia, qualche gatto si muove pigro mentre il vento fa tintinnare le piccole campane tibetane appese un po’ ovunque. Il mio alloggio si trova in una casetta separata; appena entro, accompagnata da Rameshwar amico e co-autore di molti libri di Ram Dass, sono sopraffatta con dolcezza dall’odore familiare di sandalo e patchouli, sedersi a meditare sembra l’unica cosa da farsi. Con grande gioia, scoprirò una libreria piena di libri spirituali e di storia delle religioni, molti sottolineati e annotati da Ram Dass stesso. Una o due volte al giorno mi incontrerò con lui privatamente nel suo studio che guarda sull’oceano.

Piccolo Principe
Durante una delle prime sedute vedo sul tavolino accanto alla poltrona reclinabile, una copia del Piccolo Principe di Saint-Exupéry, Ram Dass mi dice che lo sta rileggendo dopo moltissimi anni. In fondo è la storia di un aviatore e anche lui lo è stato. Mi offro di leggere ad alta voce. Ogni giorno verso la fine dell’ora stabilita per le nostre conversazioni spirituali e meditazioni, Ram Dass, ansioso e sorridente, indica il libro e iniziamo a leggere. Al Piccolo Principe piacciono molto i tramonti, una volta ne ha visti quarantaquattro in un giorno!
Il 4 di Luglio dello stesso anno, aspettando i fuochi dell’Independence Day davanti a uno spettacolare tramonto hawaiano, Ram Dass ha cercato il mio sguardo e ha detto: «Un altro tramonto!». Abbiamo sorriso entrambe pensando al Piccolo Principe e io ho continuato la citazione: «Quando si è tristi, fa bene vedere i tramonti».

Il 22 Dicembre del 2019 durante il solstizio d’inverno, quando il ciclo della luce ricomincia, Ram Dass ha fatto due respiri profondi, come quelli che fece durante il primo viaggio con la psilocibina; dolcemente a 88 anni, si è lasciato scivolare di dosso «la tuta spaziale», come chiamava il corpo. L’avevo visto dieci giorni prima a Maui durante un ritiro di gruppo e avevo capito che era pronto. Mi ero commossa di fronte alla sua generosità di voler dare fino all’ultimo istante, al piacere che ancora provava a lasciarsi scivolare tra le onde dell’oceano.

Quando mi è arrivata la notizia della sua morte ho pensato al Piccolo Principe, al volo, ai tramonti e alle tute spaziali; le camice hawaiane come le indossava lui però non le sa portare nessuno. Sono subito andata a cercarmi un tramonto e ho cantato.