L’arresto di Augusto Pinochet nel 1998 fu l’episodio più clamoroso: su ordine del magistrato Baltasar Garzón, l’ex dittatore cileno fu privato della libertà mentre si trovava a Londra. La giustizia spagnola voleva processarlo per crimini contro l’umanità, in virtù del principio di giurisdizione universale riconosciuto dall’ordinamento spagnolo. Il Regno unito, dopo una lunga battaglia legale, non concesse l’estradizione, e l’anziano carnefice poté tornarsene in patria, dove morì impunito qualche anno dopo.
Quello di Pinochet fu il più noto, ma non l’unico caso di applicazione della giurisdizione universale da parte dei tribunali della Spagna, che misero sotto accusa altri responsabili delle giunte militari latinoamericane. In una circostanza si arrivò ad una condanna definitiva (per l’argentino Adolfo Scilingo), nelle altre l’azione penale fu poi assunta dagli stati in cui vennero commessi i delitti di lesa umanità.
Per avviare i procedimenti, i magistrati spagnoli non avevano bisogno che il fatto riguardasse il loro Paese: la legge prevedeva che ogni crimine contro l’umanità commesso in qualunque parte del mondo fosse perseguibile dai tribunali iberici.
Da ieri non è più così. Il parlamento di Madrid ha approvato una riforma del codice penale che, di fatto, abolisce il principio di giurisdizione universale. Favorevole al cambiamento solo il conservatore Partido popular (Pp), che gode di una comoda maggioranza assoluta. Inutili le proteste e il voto contrario di tutte le opposizioni – dai socialisti del Psoe a Izquierda Unida, dai nazionalisti catalani di centrodestra agli indipendentisti baschi – e inascoltate le critiche dei settori progressisti della magistratura e delle associazioni per la difesa dei diritti umani.
Alle origini della decisione del Pp c’è una vicenda giudiziaria molto delicata, un esempio da manuale del conflitto fra «ragion di Stato» e giustizia: la causa aperta nei confronti di cinque ex alti gerarchi cinesi, fra i quali l’ex presidente Jiang Zemin, ai vertici della Repubblica popolare dal 1993 al 2003. Accusati di genocidio nei confronti del popolo tibetano, nei loro confronti è stato anche spiccato un mandato di arresto internazionale. Una vicenda che ha fortemente irritato (per usare un eufemismo) la dirigenza cinese, che ha apertamente minacciato ritorsioni diplomatiche ed economiche. Avvertimenti che hanno sortito gli effetti che Pechino sperava: le carte del controverso processo andranno al macero. La norma varata ieri, infatti, si applica da subito ai procedimenti in corso.
D’ora in avanti, i magistrati potranno agire solo nel caso in cui gli imputati di crimini come genocidio, tortura o sparizione forzata siano di nazionalità spagnola. Non basta più, cioè, che lo siano le vittime, come prevedeva la legge in vigore fino a ieri.
Una modifica, quella introdotta dalla maggioranza conservatrice, che giunge cinque anni dopo la prima riformulazione dell’originaria norma sulla giurisdizione universale, risalente al 1985. Già nel 2009, infatti, venne ridotta la portata dell’azione dei tribunali spagnoli nell’istruire processi per crimini di lesa umanità.
Con il voto bipartisan di socialisti e Pp, venne introdotto un primo vincolo: le vittime dovevano essere di nazionalità spagnola o, in ogni caso, nel procedimento doveva esserci qualche tipo di relazione con il Paese iberico.
Anche allora, alla base della decisione c’erano stati vari incidenti diplomatici. Quelli che da ieri sera nelle intenzioni del Pp non dovrebbero più accadere.