Oltre la frazione di San Giovanni, a Casarsa, sorge dall’anno Mille, in località Versuta, una piccola chiesa ad aula unica, tutta bianca di calce all’esterno e intitolata a Sant’Antonio Abate. Lì sfollato con sua madre Susanna (suo padre Carlo Alberto prigioniero in Africa, il fratello Guido partigiano oltre la chiostra dei monti) nell’inverno più cupo della guerra, tra la fine del ’44 e il ’45, Pier Paolo Pasolini vi conduce i giovani allievi della «scuoletta» che ha messo insieme a Versuta: sono figli di contadini, adolescenti finalmente scampati alla pedagogia della scuola fascista ma, muniti appena di spugne e di poveri stracci, fanno riaffiorare in poco d’ora l’antico affresco che campisce la parete di destra, scene del racconto evangelico o di usuale devozione, che il loro giovanissimo maestro, fresco delle lezioni o anzi delle folgorazioni di Roberto Longhi, d’acchito attribuisce alla bottega di Vitale da Bologna.
Appena fuori dalla chiesa, nello spiazzo erboso, per spegnere la sete e lavarsi le mani sgorga da una piccola fontana un’acqua lustrale e millenaria, simbolo della vita perpetuante sé stessa anche fra gli orrori della guerra, che Pasolini solo un paio di anni prima ha voluto disporre in forma di epigrafe e alla lettera di Dedica nell’ingresso della sua minuscola plaquette d’esordio, Poesie a Casarsa, scritta in una lingua che simula e reinventa il dialetto friulano di patina veneta diffuso sotto l’ansa orientale del Tagliamento: Fontàne d’àghe dal mè paìs. / A no è àghe pi frès-scie che tal mè paìs. / Fontàne di rùstic amor, versi già stesi in italiano e contenuti in una lettera spedita da Casarsa nel luglio del ’41 all’amico bolognese Luciano Serra, ma così limpidi da alludere a un archetipo, Acque di Casarsa, solo successivamente voltato in dialetto («Fontana d’acqua del mio paese. / Nessun’acqua è più fresca che al mio paese. / Fontana di rustico amore»).
È noto che quel tenue fascicolo è all’origine non solo del decorso poetico ma della leggenda stessa di Paolini. Contiene appena tredici testi monodici in fuga dalla clausura ermetica (con evidenti tracce di Rimbaud, scoperto nelle aule del «Galvani» grazie a un incognito supplente, il poeta Antonio Rinaldi, del Machado di Campos de Castilla ma anche di Ungaretti) insieme a un responsorio tra Madre e Figlio, La domenica uliva, in cui al modello conclamato della lauda jacoponica si sovrappone, specie se letto retrospettivamente, il rapporto primordiale, tenero e arrischiato nel profondo, con sua madre Susanna. Esito di un patto con alcuni amici liceali, Roberto Roversi e Francesco Leonetti, i quali sognavano una rivista dal titolo crepuscolare, «Eredi» (ma nel dopoguerra ne avrebbero fondata una sul serio cruciale, «Officina»), il colophon reca la data del 14 luglio 1942 e la ragione sociale di una Libreria Antiquaria sita a Bologna in Piazza San Domenico, proprio davanti alle tombe dei Glossatori, gestita da Mario Landi, un individuo che si segnala per essere albino e di perfetta educazione. Sappiamo pure che è Landi in persona (sottraendola alla modesta tiratura, trecento copie in commercio unitamente a settantacinque di pregio) a spedire in omaggio la copia fatale a un suo affezionato cliente di Domodossola, un Gianfranco Contini appena trentenne ma già in tutto Contini, che se ne innamora scrivendone all’impronta una recensione rifiutata da «Primato», perché la fascistissima rivista di Bottai prescrive la lingua littoria e sdegna i dialetti, ma tuttavia recuperata dal Corriere del Ticino (Al limite della poesia dialettale, 24 aprile 1943) dove il grande filologo, con una clausola potenzialmente definitiva, dice di avervi avvertito «l’odore irrefutabile della poesia».
Ora, tutto questo ritorna con dovizia editoriale nel cofanetto patrocinato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia in cui si contengono l’anastatica delle Poesie a Casarsa e il volume critico-documentario, a cura di Franco Zabagli, Il primo libro di Pasolini (Ronzani editore, pp. 90, s.i.p.). Va subito detto che si tratta della prima iniziativa pubblica del Centro Studi dopo la scomparsa, nel maggio dello scorso anno, dell’indimenticabile Angela Felice che per tanti anni lo diresse da par suo, prodigandovi fervore organizzativo e rigore specialistico: che oggi si renda dunque disponibile una edizione tanto accurata è segno augurale della continuità garantita dal nuovo presidente, Piero Colussi, cui si affiancano non pochi studiosi di rango e in primis lo storico del cinema Luciano De Giusti. Qui, nel volumetto a cura di Zabagli, è utile sia la traccia endogena (lettere, testimonianze, documenti) che induce e travalica quelle prime poesie sia specialmente il recupero delle recensioni, che furono poche ma in più di un caso inaspettate. A parte quella di Contini (sempre lampeggiante e basterebbe l’aforisma secondo cui l’equilibrio del libretto è nella «ascesi dell’uomo sul proprio corpo»), c’è la pagina non meno consentanea di Alfonso Gatto (comparsa su «La Ruota» del gennaio ’43): Gatto, perpetuo girovago, in quei mesi è di stanza a Bologna ma Pasolini e i suoi amici prima che un maestro lo sentono un fratello maggiore (alla pari di Francesco Arcangeli, poeta e storico dell’arte, longhiano della prima cerchia), ed è appunto Gatto, con un gesto di restituzione, a parlare di «un piccolo ma schietto dono, un filtro di purezza, di mediazione, di riflessa musicalità». Se netta e però desultoria può sembrare la annotazione di Walter Binni («La Nuova Italia», XIV, 1943) che comunque vi individua anche lui «freschezza e precisione musicale» smarcata dalla eredità regionale degli Zorutti e dei Colloredo, la recensione («Autografo», VII, 1951) di un futuro grande sodale, Giorgio Caproni, si configura come il profilo di un poeta il cui antefatto friulano mostra radici da tempo «carbonizzate fino al nitore del diamante». Ma Caproni scrive ex post, quando Pasolini è fuggito con sua madre dalla pubblica infamia in Friuli, «come in un romanzo» dirà, e sopravvive a Roma dalla parti di Rebibbia. Presto, nel ’54, le Poesie a Casarsa verranno immesse e variate con tutti gli altri versi friulani successivi nel volume che sa di suggello alla propria giovinezza, La meglio gioventù (la cui stratigrafia è appurabile nell’ottima edizione commentata di Antonia Arveda per Salerno editrice, 1998). Ancora vent’anni e quei versi fioriti nella nostalgia del corpo adolescente, nella luce perfetta del paese di temporali e di primule, saranno oggetto di una tragica e terminale palinodia, La nuova gioventù, quasi fossero presi in ostaggio e sconciati, al presente, da quanto il poeta definisce l’«universo orrendo» del neocapitalismo. Il 6 novembre del ’75, cinque giorni dopo l’assassinio, porgendogli l’ultimo saluto prima dell’inumazione al cimitero di Casarsa, padre David Maria Turoldo, il suo amico poeta, pensa alla muta costernazione di Susanna, lì presente, e forse alludendo al responsorio intitolato La domenica uliva così le si rivolge: «Mamma, ti parlo per lui che ora ha la bocca piena di sabbia e polvere e non ti può chiamare, ma ha tanto bisogno di te, mamma, come l’ha sempre avuto lungo tutta la sua martoriata vita, una vita di povero friulano, solo, senza patria e senza pace. Eri tu la vera sua patria». Tutto il resto sembra essersi estinto e oramai troppo lontana è anche l’acqua lustrale di Versuta.