In tutti questi anni di scrittura — a volte sul campo, guidato dalla febbre degli eventi, oppure alla mia scrivania, quando ormai si erano conclusi da tempo — l’immagine di cosa volevo raggiungere era indistinta, una forma in lontananza in una vasta pianura, dove ogni dosso ha un potenziale. Sarei stato in grado di scrivere una frase che potesse salvarmi la vita? Se questa domanda assillante è troppo grandiosa, se idealizza ciò che la scrittura può fare per uno scrittore, è esattamente ciò che voglio: sopravvalutare le mie capacità, visto che quando ho iniziato a scrivere Lo sguardo di uno sconosciuto consideravo l’esperienza primaria e la forma secondaria, e sottovalutare dove sarei arrivato dopo anni di scrittura, come un lieve tocco che può scaraventare giù dalle scale anche il corpo più massiccio.

MA L’ESPERIENZA è interessante solo nei termini di come viene ricordata. Praticamente chiunque possa esprimere emozioni sa raccontare una storia, ma ben pochi riescono a completare una narrazione senza scarti. Migliaia di inutili parole dopo, nel tentativo di evitare il banale, avevo cercato un metodo. Avevo iniziato a scrivere in frammenti, a fiotti e a scatti, non con l’idea di decidere, ma di rivelare.
Facevo dialogare le frasi. Per esempio, la prima da A Life Full of Holes, un libro di Driss ben Hamed Charhadi, tradotto da Paul Bowles dall’arabo magrebino: «Persino una vita piena di vuoti, una vita fatta di attesa soltanto, è migliore di nessuna vita del tutto». La seconda frase è di John Berger, tratto da E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto: «Senza una casa tutto era frammentazione» (Il Saggiatore, a cura di Maria Nadotti).
Ero arrivato a Charhadi grazie a A Life Full of Holes – The Strait Project di Yto Barrada, un progetto fotografico che esaminava i sogni dei migranti nordafricani e la loro influenza su Tangeri. Quando avevo cominciato a scrivere, in quei primi mesi, mi ero concentrato sulle fotografie — di fotografi con cui viaggiavo o incontrati durante il viaggio, oppure di quelli in cui mi ero imbattuto mentre annaspavo, immerso fino al collo in quel tema.

LE FOTO, alcune delle quali sono incluse nel libro, erano diventate una sorta di indicazione stradale sulla strada verso un maggiore acume. Eppure, gran parte di quello sui cui speravo facessero luce — per esempio, l’intensità della disperazione di chi lasciava l’Africa per l’Europa — rimaneva ineffabile.
Quando ero tornato dal Marocco, dove un uomo della Costa d’Avorio mi aveva detto «Il Mare è l’unica via» indicando il Mediterraneo, ogni frase che scrivevo per ricordarlo sembrava fragile, come muoversi in canotto invece che in aereo. Volevo lavorare con l’idea che una frase può contenere un silenzio, che una ellissi rappresenta un viaggio la cui meta è ignota, una vita fatta di attese soltanto.
Il numero di persone che al giorno d’oggi lasciano la loro terra per cercare una vita migliore altrove non ha precedenti nella storia umana, così come le tecnologie per diffondere tutta la disperazione che accompagna questi spostamenti di massa. Due questioni per me di grande interesse, soprattutto se considerate insieme.

SI PUÒ LEGGERE il mio libro come una raccolta di riflessioni sulla fotografia? Lo spero vivamente. Quando studiavo alla School of Visual Arts, la mia presunzione stava nel considerare la critica come una forma narrativa – esplorare il significato della fotografia in relazione al mistero dell’esperienza.
Stamattina passavo da un libro all’altro — una prefazione, dei paragrafi introduttivi, alcuni brani tra un capitolo e un altro — chiedendomi quali idee sarebbero rimaste, per intravedere il mio stato mentale nella sua forma più vera. Un lettore sfiora una moltitudine di sconosciuti e io ho il sospetto di essere più vero di fronte alla percezione altrui, sotto una luce indiretta, lo sguardo di un pronome definito.
Immaginiamo per un istante di non avere le storie degli altri su cui riflettere. Le nostre vite potrebbero proseguire con poche complicazioni, come fili di un nodo slegato? Nessuna vita è una singola storia. Nessuna azione è priva di eco. Ricordate o immaginate, le storie degli altri influenzano le nostre nei sogni e nei pensieri. È così che possiamo vedere il dolore degli altri. È così che non siamo soli.

(La traduzione è di Gioia Guerzoni)

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Scheda. Festival Letterature migranti, a Palermo e online fino a domenica

Emmanuel Iduma interverrà con un contributo video alla VI edizione del Festival delle Letterature migranti di Palermo (quest’anno interamente online), domenica 25 ottobre alle 17.30 a proposito del suo libro «Lo sguardo di uno sconosciuto» (Brioschi). Nato in Nigeria nel 1989, Iduma è autore di romanzi, saggi, articoli per giornali e riviste, libri d’arte e cataloghi di mostre. Attualmente insegna alla School of Visual Arts di New York. Nel 2017 è stato uno dei curatori del padiglione nigeriano alla Biennale di Venezia. Tra gli autori che interverranno: Abraham B. Yehoshua, Kader Abdolah, Emma Dante, Dror Mishani, Sahar Mustafah, Suad Amiry, Domenico Quirico, Ruska Jorjoliani, Igiaba Scego, Oliver Van Beemen, Veit Heinechen, Marco Aime, Giulio Guidorizzi. Programma completo e dirette streaming sul sito festivaletteraturemigranti.it