Pittore, cineasta, illustratore, designer, scultore, ceramista, fotografo, scenografo, saggista, bibliofilo, studioso e collezionista del futurismo: è impossibile definire Ugo Nespolo, uno degli artisti italiani, attivo dagli Anni Sessanta e insofferente a qualsiasi incasellamento troppo stretto dentro ai movimenti ed alle tendenze artistiche: Nespolo è solo Nespolo, una figura “fuori dal coro”, come recita il titolo della sua personale che inaugura venerdì 5 Luglio a Milano: dieci sale a Palazzo Reale che propongono un itinerario tra le arti. Perché Nespolo – torinese, che però ha anche vissuto e lavorato a Milano negli Anni Settanta – a cavallo delle arti ci sta a suo agio, da instancabile esploratore, curioso, ludico, coltissimo per via dei suoi interessi e delle sue frequentazioni con i maggiori filosofi internazionali (da Baudrillard a Danto da Vattimo a Ferraris e Cimatti), ma anche popolare nel senso più alto del termine, per la sua necessità di comunicare con tutti attraverso la sua arte. Un’arte visiva nel senso pieno del termine, poiché giocata su un’esplosione di forme e di colori che colpiscono i nostri occhi.

Ma Nespolo, oltre ad essere artista, da molti anni è un osservatore critico della scena artistica, attraverso una serie di suoi interventi di carattere teorico pubblicati su “La Stampa” o su “Il Foglio” (e da poco raccolti nel volume Maledette Belle Arti Edizione Skira). E, come ci spiega, nella nostra conversazione, il problema attuale è che l’arte è oggi marginale, poiché nasce con poca riflessione, ma quasi solo da esigenze meramente di mercato e, dunque, fa sempre più fatica ad incidere sulla realtà, lontana dalla funzione sociale che ci pareva svolgesse un tempo. La mostra di Palazzo Reale (accompagnata da un corposo catalogo edito da Skira che raccoglie contributi critici di autori internazionali), si aggiunge alle centinaia e centinaia di esposizioni personali che Nespolo ha allestito un po’ in tutto il mondo e che hanno reso la sua variegata opera inconfondibile.

E poi c’è una lunga filmografia ad accompagnare la sua arte. Oltre una sessantina di “esperimenti”: dalla sua prima opera filmica, quel Grazie, mamma Kodak (1966) – che fin dal titolo denuncia il fatto che ogni film sperimentale è prima di tutto un meta-film nel suo strutturarsi come riflessione sul dispositivo che utilizza – fino a Shades in the Couch, realizzato nel 2016. E’ evidente come il percorso audiovisivo di Ugo Nespolo, pur nella diversità dei suo momenti, mantiene una sua organicità, oltre che una coerenza stilistica e linguistica rispetto al resto della sua opera (quadri, illustrazioni, sculture, ecc.). Nespolo, inoltre, è forse l’unico artista degli anni ’60’70 – fatta eccezione per Paolo Gioli – che ancora oggi continua a realizzare film, senza nostalgia per la pellicola ma, anzi, trovando le infinite possibilità della post-produzione digitale più plasmabile e, dunque, più affine alla sua estetica caleidoscopica. Sono nati così cortometraggi singolari, a volte narrativi, quali: Con-certo rituale, Buongiorno Michelangelo, Un supermaschio, Andare a Roma, Le porte girevoli, Superglance e Campari 150.

Partirei dalla personale di Palazzo Reale. Puoi raccontarci come è stata strutturata?

E’ un piccolo viaggio anche se parzialmente cronologico, nel senso che attraversa il mio lavoro dagli Anni Sessanta ad oggi a cominciare dalle bottiglie Molotov che realizzai proprio nel Maggio ’68 ed esposi alla galleria torinese Il Punto. Da questa prima sala si passa alla fase dell’Arte Povera, periodo della mia mostra presso la galleria di Arturo Schwarz con presentazione di Restany e Simonetti. Fu un’occasione importante, ed è stata la prima di altre esposizioni sull’Arte Povera. Da qui si passa alla sala che, in contrapposizione, definisco di “Arte Ricca”, composta da lavori oggettuali raccolti sotto il nome di “fogginia” (in omaggio all’artista seicentesco Giovan Battista Foggini): furono al centro di una mia mostra alla galleria Christian Stein di Torino con un testo critico di Paolo Fossati. Naturalmente non potrà mancare il cinema cui è dedicata la sala successiva, composta intanto da una colonna di cineprese della mia collezione, e poi da manifesti, fotografie dei miei film ed un’installazione in loop. Segue la sala dei quadri-libro e dei libri d’artista (realizzati con Merini, Sanguineti, Ferraris e altri), la sala con grandi disegni e collages su carta da spolvero (una sala, questa, più meditativa, che rivela la natura intima del mio lavoro). La sala successiva è tutta incentrata sui Numeri e sulle Lettere, quadri e sculture di piccole e grandi dimensioni. Non mancheranno i teatrini con le scenografie per opere liriche, dalla Turandot a Elisir d’amore, fino all’ultima, L’Italiana in Algeri, che sta attualmente girando per l’Italia e l’estero. Un’altra sala conterrà piccole installazioni con oggetti anche di carattere pubblicitario, manifesti, la mia versione della Moto BMW o della Vespa Piaggio, anche per restituire meglio la mia idea di arte diffusa. La penultima sala della mostra è composta dai grandi cavalletti con opere di diverse dimensioni, tondi di ceramica faentina, ecc. Infine l’ultima sala, molto grande, dove campeggia la scultura Avanguardia educata e opere con fondi d’oro, installazioni, sculture in bronzo e in vetro di Murano.

Da molti anni hai molti interessi in campo filosofico, e questo si evince anche dal rapporto di lavoro e di scambio culturale che hai intessuto con Maurizio Ferraris (che ha tra l’altro scritto un lungo testo per il catalogo di Milano). Qual è la filosofia dell’arte di Ugo Nespolo?

Dopo il marasma, ormai sbiadito, del post-modernismo l’arte deve tornare a produrre teorie, un nuovo sapere, deve soprattutto ritrovare senso. C’è poco senso nell’arte ed è per questo che non ha una collocazione sociale, ha pochi progetti, forse idee, obiettivi, un’utopia da perseguire. Inoltre l’arte di oggi è smemorata, ha cancellato i valori su cui era fondata nel passato. L’arte, insomma, è marginale, sta in un angolo buio del salotto, sembrano esistere solo quei 5 o 6 artisti nel mondo quelli che hanno esasperato il mercato a tal punto da far passare il messaggio che l’arte che più vale è quella che più costa.

Non mi aspettavo queste considerazioni dette da un artista come te, attento al mercato, che passa per essere tra i più venduti in Italia…

Attenzione, non è che l’arte non debba avere un riscontro economico, ci mancherebbe. Io parlo di dinamiche eccessive, di prezzi artificiosi che hanno drogato il mercato, dei “porti franchi” dove vengono custodite opere sottratte alla fruizione pubblica. Basta leggere gli studi di Donald Thompson. Personalmente vendo le mie opere a prezzi più che ragionevoli e per tutte le tasche.

Parlavi prima della funzione sociale, ma esiste una dimensione politica del Nespolo artista?

Ultimamente ho realizzato una mia mostra a Garessio, in omaggio a Giorgetto Giugiaro che è nativo di lì, sul Radeau de la Méduse. Fin da giovane sono stato affascinato dal quadro di Géricault (quando studiavo con Antonio Del Guercio), così ho cominciato a fare una serie di studi su quel grande dipinto e poi, negli ultimi anni, ho realizzato una ventina di grandi lavori raccolti sotto il titolo di Zattera e naufraghi che presentano dettagli terrificanti di chi muore in mare. Il riferimento è ovviamente ai migranti che affondano nel Mediterraneo. Ecco, credo che l’arte possa anche sensibilizzare su un enorme dramma del genere, che mi impressiona da un punto di vista umano e politico. Questa serie è piuttosto diversa dal mio modo di lavorare consueto. Un’idea forte che vorrei poter mostrare per esempio in Vaticano ed al Papa in particolare.

Torniamo per un attimo ai tuoi inizi e cioè dalla tua adesione al movimento Fluxus. Come l’hai vissuta e cosa è rimasto nel tuo lavoro di quell’aspetto performativo?

E’ rimasto lo spirito ironico, anarchico, autolesionista, il non prendersi troppo sul serio, ma anche la cura delle cose minime, la passione per un sistema che esalta il valore simbolico di oggetti “da poco” e non il loro valore mercantile. Ho vissuto quella stagione molto da vicino, conosciuto tanti personaggi. Ogni artista era diverso: Maciunas rappresentava una cosa, Ben Vautier un’altra. Ricordo che con Ben e Simonetti realizzammo il primo concerto Fluxus in Italia, un concerto durato tre giorni, parallelamente all’uscita de Le parole e le cose di Foucault.

Tu hai vissuto e operato alla fine degli Anni Sessanta in una città che ha visto il nascere e il fiorire dell’Arte Povera, a parte l’amicizia con alcuni suoi esponenti che rapporto hai avuto con questo movimento e perché hai deciso di seguire altre strade molto diverse?

Nel 1968 partecipai a 9 per un percorso, alla galleria romana di Mara Coccia, con Boetti, Pistoletto, Anselmo, Penone e altri. Poi ho fatto una serie di altre mostre finché non decisi di prendere altre strade. Del resto ho cominciato a stare più a Milano che a Torino e ho stretto amicizia con Enrico Baj. Insomma ho voluto fare cose che mi divertivano di più. L’Accademia dell’Arte Povera mi sembrava esigua. L’Arte Povera non è mai stata un gruppo coeso, un movimento vero e proprio, come altre Avanguardie, mai stata un “credo” artistico che abbia elaborato manifesti importanti. L’Arte Povera è stata un fenomeno artificioso costruito abilmente, come sappiamo, da Germano Celant. Intendiamoci, costituito da ottimi artisti, che hanno avuto una loro forza, una loro intelligenza, ma ognuno in fondo andava per proprio conto.

Il Nespolo’s style è immediatamente riconoscibile, quasi un brand: le campiture di colori senza sfumature, i giochi di intarsio, la mescolanza di astratto e figurativo, come nasce il tuo tocco e quanto sei stato influenzato dal Futurismo e dal tuo caro Depero?

La verità è che io non avevo mai guardato Depero e del resto negli Anni Sessanta non si parlava del Futurismo, poiché non lo avevano ancora rivalutato. Quando ho cominciato a fare i miei lavori ad intarsio, ero influenzato dalla Pop Art, anche perché ero stato negli Stati Uniti prima di molti altri. Ricordo un’estate passata a Torino totalmente deserta (quando c’era la Fiat la città si svuotava ad Agosto), tagliato in frammenti, tessere, un foglio di legno stratificato, riuscii a comporre un’immagine giocosa, un puzzle quasi, ricco di colori e di contrasti. Nacque così la prima mostra di collage lignei di dieci pezzi al massimo. Oggi quelle vecchie opere sono introvabili, quando mi capita le ricompro subito.

Il tuo atelier è organizzatissimo, una sorta di factory alla Warhol. In che percentuale oltre che artista ti senti anche manager della tua arte?

Mi sento totalmente manager, come del resto tutti gli artisti del passato. Il mio modello resta la Casa d’arte futurista o il Bauhaus di Weimar. Adoro il rapporto con la committenza imprenditoriale, ma non per soldi, poiché rappresenta una sfida ogni volta è diversa, che mi impegna, che mi fa ragionare. Poi mi piace organizzare il mio studio, il lavoro di squadra, tenere tutto sotto controllo, rispettare le date di consegna.

E dopo questo immenso lavoro di coordinamento trovi il tempo per realizzare le opere?

Tutti i giorni. Del resto io ed i miei amici siamo rapidi e organizzati. L’arte è un fatto razionale, fatto di pianificazione. Il mio è uno studio che vive di validi collaboratori – alcuni esterni – con competenze molto diverse (dai grafici agli architetti), tutta gente che lavora con me da molti, moltissimi anni.

Veniamo alle immagini in movimento: da cosa è nata la necessità di realizzare film?

Mi appassionai dopo uno dei miei viaggi negli USA e dopo aver visto molti film del NAC. Il cinema mi sembrava terreno ideale, qualcosa di naturale, un campo autonomo. Io poi ho sempre proiettato i miei film durante le mie mostre, dunque sono quello che forse li ha diffusi molto. Inoltre il cinema d’artista non ha mai avuto un risvolto economico. E’ nato puro ed è rimasto tale.

Il tuo atteggiamento libero ha fatto sì che qualcuno abbia nutrito un po’ di diffidenza nei tuoi confronti?

Davvero libero di pensare a me come si vuole.

Qualcuno teme la mia presunta attitudine commerciale come non si sapesse che l’arte è sempre – e da sempre – vissuta all’ombra della committenza. Meno ipocrisie per favore!

C’è un Nespolo fotografo poco o per nulla conosciuto, che rapporto hai con questo medium e quando farai una mostra di tue immagini fotografiche?

L’ho appena fatta in una galleria di Trieste, MLZ, dove ho esposto per la prima volta una ventina di foto (alcune di grandi dimensioni) realizzate durante i miei lunghi soggiorni a New York alla fine degli Anni Settanta: al mattino uscivo con la mia piccola Leica e fotografavo tutto quello che capitava, dai negozi alle automobili. In realtà quelle immagini le usavo solo come spunti per i quadri. Adesso le sto stampando, ho intenzione di fare altre esposizioni e probabilmente le pubblicherò anche in un volume.

Tra i tanti ambiti in cui ti muovi ce n’è uno che trovi più consono o che ti appassiona degli altri?

Ti sembrerà strano ma mi appaga la scrittura. Quando scrivo un articolo mi pare di sentirmi più tranquillo, di essere davvero in una posizione di rispetto con me stesso. Ora per esempio sto lavorando ad un saggio per Einaudi, un viaggio nelle “pene” del fare arte. Rivendico il fatto di essere tra i pochi artisti intellettuali con la necessità di riflettere periodicamente su arte e la sua conduzione. Un tempo gli artisti ci provavano. Pensiamo agli scritti teorici di Cezanne, di Van Gogh, Klee, Kandinskij, perfino di Picasso.

C’è un campo espressivo che non hai ancora affrontato e che ti piacerebbe esplorare?

Mi piacerebbe mettere in piedi un piccolo gruppo di ricerca a livello internazionale, con giovani filosofi e pensatori, per capire cosa si è fatto e cosa si può fare per il futuro dell’arte. Credo fortemente nell’Europa e bello sarebbe costruire una grande mostra itinerante sui libri d’artista realizzati dall’inizio del ’900 fino ad oggi. Sinceramente penso che una delle cose che connota e lega in maniera identitaria il nostro tanto disprezzato continente siano proprio i libri d’artista.

In che direzione dovrebbe andare l’arte?

Dove c’è senso e umanità.