Chi fa ricerca storica raccoglie documenti e intervista testimoni. Scrive per lasciare memoria di tragedie indicibili, come in questo caso, e condivide con gli intervistati strade buie, popolate da fantasmi che stanno nascosti e pure vogliono parlare. Nascono così le biografie di tanti partigiani, deportati, sopravvissuti o schiacciati dall’impietosità della barbarie nazifascista.

Ma questo libro è anche qualcos’altro. In 1945 – Ich bin Schwanger (sono incinta), (Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, pp. 130, euro 18) Anna Di Gianantonio (con Gianni Peteani), con l’accuratezza e la linearità che le sono proprie, racconta la storia di una donna antifascista, della sua famiglia, dell’impegno partigiano e ci porta in una Trieste devastata da due guerre, dalla forzata divisione tra le etnie che la abitano, e tra legami che si spezzano nel nome di un futuro che ognuno a modo suo vuole costruire.

Trieste e gli sloveni che la abitano, l’antifascismo delle donne e dei ragazzini nei gesti quotidiani, il senso profondo di vivere per una causa se pur questa resta legata e risolta, in fondo, nel «fare quello che si deve» come imperativo etico. Ma ci sono anche i protagonisti più noti di quegli anni, con un Vittorio Vidali descritto nel pieno del suo peso – non soltanto politico – e c’è, tremenda, la frantumazione di una storia democratica e solidaristica che diventa scontro sanguinoso tra comunisti: prima tra filo jugoslavi, filo italiani e autonomisti e poi tra cominformisti e titoisti.

MA, PRIMA DI QUESTO, nell’inverno del 1944, il calvario di Nerina Uršic, deportata a Ravensbrück mentre aspetta il suo primogenito. Ich bin Schwanger dice, altro in tedesco non conosce ma è questo che conta, e di questo grido, di questa supplica, si fa scudo affrontando l’allucinante quotidianità del campo di concentramento e la tremenda marcia per tornare a casa. Una gravidanza che la tiene in vita ma contemporaneamente la svuota, la debilita, la immobilizza e che diventerà esperienza indelebile anche nel rapporto con la figlia ma di cui, come tanti ex deportati, non parlerà mai. Il libro diventa così anche la storia di Sonia, nata a Trieste due mesi dopo il ritorno di Nerina, che ha conosciuto una madre presente ma anche lontana, affettuosa e subito scostante; Sonia che si è sentita amata e insieme respinta e che sul trauma di questa ambivalenza ha costruito la sua vita.

Un libro, dunque, su quanto una tragedia possa riverberare tra le generazioni, su quanto si paghi ancora, negli anni, un dolore insopprimibile che non appartiene alla pelle di chi l’ha subito ma penetra miasmatico nell’anima di chi resta. Ma, ancora, qualcosa di più. Un libro che parla di incontri e, straordinariamente, mettendo di fronte chi scrive con chi testimonia finisce per portare tutti dentro le sue pagine. Innanzi tutto Sonia che parla con gli autori e rilegge con loro le lettere di sua madre e così ricostruisce, un poco alla volta, anche i pezzi della propria storia fino a smussare le spigolosità dolorose di quel rapporto inscindibile e sofferto.

ALTRI TESTIMONI diventano protagonisti: Roberto, cugino di Sonia, nato e cresciuto in una famiglia di vedove, in cui padre e zii sono caduti per la libertà e Manolo che, da un continente di distanza, cerca se stesso cercando radici. Nel libro c’è anche Ondina Peteani, la prima staffetta partigiana d’Italia, che prima di Ravensbrück era stata ad Auschwitz e, tornata a Trieste, è rimasta vitalissima, militante, una delle belle figure della storia del Pci: eccola in poche righe folgoranti, quando fa visita all’amica Nerina, entrambe anziane, e con lei condivide, seduta in cucina mano sulla mano, soltanto un lunghissimo silenzio.

L’altro autore del libro è proprio Gianni Peteani, figlio di Ondina, che, da autore che intervista Sonia, diventa presenza parlante del libro: può ricordare la propria di madre e sentire ancora, con infinita dolcezza, quanto deve dell’uomo che è oggi a quell’impegno materno per una vita libera e a quel baratro di angoscia e di dolore.