Sulla copertina del Diario 1963-1971 di Neri Pozza, ben curato da Marco Cavalli per i tipi di Ronzani (pp. 160, € 16,00), campeggia l’unico disegno accolto nel manoscritto, riproducente uno schizzo della Tomba Brion realizzata da Carlo Scarpa a San Vito di Altivole. Il diario si chiude in contesto altrettanto luttuoso: un epicedio di Antonio Barolini, il cui libro d’esordio La gaia gioventù fu stampato da Neri Pozza, con l’ausilio di alcuni amici, all’insegna delle improvvisate Edizioni dell’Asino Volante. Era il 1938 e il disegno in copertina, raffigurante un asino munito di ali, venne affidato all’estro rabdomantico di Renato Birolli. Seguì un manipolo di volumetti delle Edizioni del Pellicano, prima che nel 1946 uscisse il titolo inaugurale della casa editrice recante il nome del suo artefice: Peter Rugg l’errante di William Austin, tradotto da Aldo Camerino.
La figura poliedrica di Neri Pozza caratterizzò il secondo dopoguerra in maniera discreta ma irremovibile: oltre che editore fu poeta, narratore, memorialista, biografo di Tiziano e Sant’Antonio da Padova, saggista, scultore, incisore, collezionista. Dotato di un acceso spirito polemico e di una dirittura morale non comune, imprigionato per antifascismo (vedi Barricata nel carcere, del 1946), l’editore vicentino tenne un diario che sembra fare idealmente da contraltare a quello, ben più minuzioso e articolato, redatto dalla moglie Lea Quaretti con il titolo Il giorno con la buona stella, uscito postumo nel 2016. Sono spesso riportati i medesimi aneddoti e avvenimenti, la cronaca degli stessi incontri, visti da due prospettive quasi speculari, confrontate in nota dal curatore (vedi la morte della Mosca, moglie di Montale). Il diario (da ricordare la recente uscita di un altro inedito, proposto con il titolo barthesiano Frammenti di un discorso interrotto, rievocante gli imenei con Lea Quaretti) risulta più dettagliato durante i primi anni di stesura, dal ’63 al ’66, mentre in seguito gli interventi si fanno occasionali.
Interessanti sono alcuni giudizi lapidari come quelli riguardanti l’apprezzamento per Libera nos a Malo di Meneghello, Lessico famigliare della Ginzburg («un libro necessario»), Gli strumenti umani di Sereni o le rievocazioni di scrittori che hanno dato lustro alla casa editrice, a cominciare da Buzzati, definito il «Buster Keaton della letteratura», Gadda, Montale, Parise, a cui Pozza non risparmia critiche anche severe: si pensi alla presa di distanza dall’impianto formale del Ragazzo morto e le comete che sfocerà, di fronte al rifiuto da parte dell’autore di intervenire su «errori e storture», nell’inserimento nel romanzo di un caustico dépliant dell’editore. Su tutto prevale questa maniera tagliente, burbera, quasi irriverente, di porsi di fronte al mondo di un’editoria interessata all’aspetto puramente commerciale, a una «burocrazia ridotta alle condizioni di una necropoli», a una città, la sua Vicenza, dissezionata con occhio impassibile di anatomopatologo: «Così parlando potrò aggiungere che l’immagine che lascio della mia città non è che l’immagine di una solitudine totale. Non si vedono che pietre, bianche, grigie, nere. E sopra il cielo pezzato – non capisco ancora se è un tentativo di dare vastità al paesaggio, di misurarlo in rapporto alle case, o se è un presagio di oscure calamità. Nella veduta con la torre, grosse crepe si sono aperte come per tempesta, – ma non è tempesta del cielo».
Alla sede operativa dell’odiosamata Vicenza si contrappone quella legale di Venezia, anche se la patria di Manuzio costituisce per Pozza un ricettacolo di «lebbra sparsa tra i muri sudici», con abitanti e amministratori intenti solo a dilapidare l’eredità di tale città «bianca, di marmo, di pietra, di intonaci». Il diario rappresenta, al pari di altri libri di testimonianze di Pozza quali Ritratti vicentini e Personaggi e interpreti (si pensi anche al postumo Vita da editore, curato da Angelo Colla), un ricco campionario di incontri con personalità di rilievo, provenienti dalle discipline più disparate: da Mariano Rumor a Felice Ippolito, dall’ipocondriaco Andrea Zanzotto a Manlio Dazzi direttore della Querini Stampalia e curatore del Fiore della lirica veneziana, da Fernando Bandini declamante passi dell’Eneide ad Arnoldo Mondadori ottuagenario in cerca di onorificenze. Tra incontri e scontri con Piovene, Ragghianti, Magagnato, Folena in disaccordo sull’impostazione della Storia della cultura veneta, Carlo Diano (vari titoli, tra cui Forma ed evento, del 1952), sullo sfondo di un’allucinata architettura palladiana, si snodano le pagine di questo diario «atipico», in cui si avvicendano, con tragicomiche cadenze da Comedia familiare, i protagonisti di una stagione irripetibile della nostra cultura, dov’era ancora possibile che un autodidatta di talento (L’ultimo della classe si intitola uno dei suoi libri più riusciti) si improvvisasse editore per scommessa, raggranellando pochi spiccioli per celebrare l’uscita del primo libro in un’osteria sui Colli Berici, «con grandi stormi di rondini che ci facevano festa».