Nel campo del cinema d’animazione, Anno Hideaki è soprattutto identificato come il creatore di Neon Genesis Evangelion. Ovvero l’epopea che attraverso una serie televisiva prima (1995-96) e sei film poi (il primo è uscito nel 1997; l’ultimo uscirà nel 2020) ha rinnovato il genere «mecha» – e non solo – con un impatto (narrazione, estetica, temi, riscontro economico) sulla stessa lunghezza d’onda del «media franchise» per eccellenza nella categoria, Gundam.
Ora, la presenza del capolavoro di Anno su Netflix – ci sono la serie televisiva più i primi due film – offre l’occasione di vedere o rivedere il lavoro del cineasta nipponico, in attesa di Evangelion 3.0+1.0. Cioè il tassello filmico che dovrebbe chiudere il ciclo del «reboot» (nuova versione) del progetto originario.
L’esperienza può essere una opportunità per ragionare sulla modernità di certe scelte compiute dall’autore.

LA FINE DEL MONDO
E LA CRISI DEL SOGGETTO
I tratti salienti della trama di Neon Genesis Evangelion sono famosi, ma val comunque la pena fornire una indicazione come orientamento generale.
Dunque: siamo nella capitale, Neo Tokyo-3; A.D. 2015, quindici anni dopo il «Second Impact», i cui effetti distruttivi hanno causato cambiamenti mondiali su tutti i fronti. Una organizzazione – il suo nome è «Nerv» – si trova a combattere contro gli «Angeli», cioè mostri poliformi che minacciano l’umanità. Lo fa attraverso l’uso di unità chiamate «Evangelion» (Eva), robot pilotati da tre adolescenti: l’introverso figlio del comandante, il protagonista Ikari Shinji; le ragazze Ayanami Rei e Asuka Soryu Langley. Questa è la situazione di partenza. L’intreccio, per accumulazione di fatti e sottrazione di senso, si svilupperà poi verso una risoluzione in modalità diverse che serie e film identificherebbero con il «Third Impact», in cui Shinji è sempre parte in causa.
Su questo lavoro è stato scritto moltissimo. Al riguardo, le riflessioni di Thomas Lamarre nel suo The Anime Machine sono fondamentali per apprezzare l’esito originale della serie, noto per le sue difficoltà produttive e le controversie fra i fan. Gli ultimi due episodi presentano infatti quello che sarebbe lo scontro finale, ma nella testa di Shinji, come cortocircuito tra storia e riflessione su questa, trasformandosi alla fine in presa di coscienza del nostro. Anno ci pone dentro l’animazione nel suo farsi, disfarsi, e rifarsi. «La crisi esistenziale è crisi tecnica, e viceversa», scrive lo studioso canadese. All’opposto, The End of Evangelion (1997) mostrerebbe l’esplosione della crisi del personaggio principale come innesco del «Third Impact».
La modernità della «grande narrazione» di Evangelion – la battaglia per salvare l’umanità – la si potrebbe quindi individuare nel legame quasi nietzschiano che l’animatore giapponese pone tra soggetto e mondo. Se il primo trova un equilibrio interiore, allora tutto si regge; altrimenti, il mondo crolla.

DAL NON-FINITO
ALL’ICONOCLASTIA
Un altro aspetto incredibilmente moderno in Neon Genesis Evangelion – serie e primi due film – credo possa essere riscontrato nella sua qualità figurativa, un qualcosa che rifletterebbe il gusto estetico della casa di produzione del progetto. Come scrive Lamarre, a differenza di quel modello culturale di riferimento che è Studio Ghibli, il cui tratto distintivo è quello di insistere sull’animazione d’arte e le tecniche pittoriche, lo Studio Gainax – quando gestito da Anno e soci – insisteva invece sull’ingegneria e il design grafico. In questo c’è la possibilità di trovare un collegamento con lo spirito della filosofia del mondo otaku (a torto o a ragione, il giapponese ne è considerato uno dei cantori). In particolare, nella predilezione per una idea di configurazione della percezione visuale tendente al diagramma, una esperienza in cui gli elementi sembrano disposti in vista esplosa, cioè «contemporaneamente separati e insieme».
Dato questo quadro, nel suo sospendere, nascondere e trasformare il corso dell’azione, il finale spiazzante della serie non farebbe altro che manifestare chiaramente la persistenza di una sensazione di non-finito che attraverserebbe le immagini dell’opera di Anno. Ma quando si parla di non-finito, non si può non prendere in considerazione l’idea di «opera aperta» che comporterebbe, e quindi una concezione del lavoro sulla forma in cui l’equazione tra essere e vedere può venir meno, si può tradire.
Il secondo film, The End of Evangelion, lo si può invece prendere come esempio di un approccio iconoclasta alla narrativa della saga. Come si sa, l’opera è una riscrittura della fine dello show televisivo. Qui il regista nipponico sembra aver deciso di rovesciare quanto fatto in passato, scegliendo una cifra stilistica votata all’eccesso: a partire dalla reazione violenta di Shinji, tutto precipiterà in un caos in grado di dissolvere figure e luoghi a lui intorno.
In fondo, la materializzazione di una alienazione.