Giuseppe Tomasello canta in perfetto slang napoletano e si considera poliglotta: può passare dall’italiano al siciliano alla lingua di Eduardo a suo piacimento. Quando impugna il microfono o si siede al pianoforte, la voce gli si assottiglia e perde il consueto timbro nasale. A 26 anni suonati, la sua vita è un florilegio di capitomboli: la droga, una rapina finita male, la comunità di recupero, un incidente in moto che l’ha tenuto sospeso tra la vita e la morte. Si è risvegliato un mese dopo, pochi giorni fa, e il primo istinto, tornato a casa, è stato di rimettersi in sella «per vincere la paura». Ora promette di voler ripartire, recuperando gli anni persi, raccontando al suo pubblico la voglia di non ripetere gli errori commessi. È la retorica che piace a molti giovani delle periferie meridionali, comprese quelle della capitale: quella delle «storie vere» nelle quali immedesimarsi, delle occasioni mancate e del concedersi un’altra chance.

Il suo prossimo disco si intitola «Zero errori» e si avvia a spopolare tra i ragazzi di borgata della periferia sud di Roma, da Tor Bella Monaca al Quarticciolo. Come a Napoli e in buona parte del sud Italia, da Palermo a Bari, nelle banlieue capitoline la musica neomelodica napoletana batte persino l’hip hop dei rapper maledetti alla Er Gitano, che qualche anno fa si sparò un colpo in testa per una delusione d’amore. La melodia pop e i testi facili, nonché la contiguità con certi linguaggi televisivi, toccano il cuore di un pezzo di popolazione più delle asprezze e delle rime dure del gangsta rap de’ noantri, in maniera transgenerazionale. Luca «Zulu» Persico, cantante dei 99 Posse, storico gruppo della prima ondata del raggamuffin napoletano, ammette: «In certi quartieri metropolitani la maggioranza della popolazione ascolta i neomelodici». La spiegazione a suo dire è semplice: «Sono persone che vivono ai margini e hanno bisogno di essere rappresentate, come tutti gli altri gruppi sociali».

Dal veterano Gianni Celeste a Tony Colombo, fino alla star Maria Nazionale, la Roma che esonda dal Grande Raccordo Anulare si avvicina geograficamente e musicalmente sempre più all’odiata rivale. E produce i suoi cantanti. Giuseppe Tomasello è figlio della seconda generazione di immigrati dal sud Italia: è nato a Roma da padre siciliano e madre napoletana di Ponticelli, ha cominciato a esibirsi a 8 anni in una discoteca sulla Tiburtina e si è fatto le ossa tra karaoke, serenate, battesimi, cresime, comunioni e matrimoni, come un qualsiasi neomelodico di Scampia o dei Quartieri Spagnoli. Mi dà appuntamento a casa sua, lungo l’Ardeatina alle porte di Roma, dove mi accoglie, vestito di bianco, in una location stile Reality di Matteo Garrone dove sta finendo di scontare agli arresti domiciliari una condanna che l’ha tenuto per qualche anno al palo. Ma ora, dice, ha voglia di ripartire e mira al bersaglio grosso: il festival di Sanremo, punto d’approdo per ogni neomelodico che voglia uscire dal ghetto. I modelli sono, più che Nino D’Angelo, precursore di un genere che affonda le radici nella sceneggiata napoletana alla Mario Merola, i più recenti Gigi d’Alessio e Maria Nazionale, proiettati sui palcoscenici nazionalpopolari dopo anni di gavetta nel mondo off delle feste patronali e degli appuntamenti privati.

LATITANTE

Gli chiedo come si fa a diventare neomelodici nella capitale. Mi risponde che la passione per questo tipo di musica gli è stata trasmessa da suo padre, catanese come Gianni Celeste. Già a 8 anni muoveva i primi passi in un discoteca che si chiamava Mirò, poi all’Altro locale, entrambi in zona Tiburtina. Poi ha studiato musica e un giorno un produttore di neomelodici lo ha reclutato dicendogli: «Guagliò, tu tieni ‘na bella voce». Ha sfornato i primi dischi, si è esibito in Belgio, Germania, Albania e Romania e, insieme a un’altra star della nuova generazione di neomelodici, quell’Anthony diventato famoso dopo che un suo pezzo ha fatto da colonna sonora all’uccisione di Tonino Spiderman in «Gomorra», è il protagonista di un documentario, «Cenerentola è de Napule» (progetto finalista al premio Solinas e ancora in gestazione), nel quale racconta: «Tra i 14 e i 17 anni ho trascorso tre anni di latitanza con papà, siamo stati lontano da tutti e da tutto, mi sono chiuso nella musica, passavo le notti davanti al computer». Proprio con Anthony ha duettato un testo, «Comm’è difficile», dove racconta l’imbarazzo nel dover spiegare a un amico fraterno l’assenza di suo padre, detenuto.

Improvvisamente, la sua carriera si è interrotta: problemi di droga, un fermo a Tor Bella Monaca per spaccio, due anni in una comunità per tossicodipendenti, la rapina a un benzinaio sulla Prenestina costatagli una condanna a nove anni con l’aggravante, a suo parere, di essere «figlio di papà», cioè di un malavitoso in carcere da sette anni. «Sono molto legato a lui e, nonostante mi abbia sempre detto di non seguire la sua strada, ho voluto testardamente emularlo, sbagliando». Le cronache raccontano che, durante una perquisizione nell’abitazione romana, ha regalato un suo disco ai carabinieri per spiegare loro la sua vera vocazione.

Gli domando che legame c’è, a suo modo di vedere, tra la musica neomelodica e la camorra. «Nessuno», afferma. Il punto è che «noi raccontiamo le storie vere», e a Napoli in particolare tra la gente «’e miezz’a via» si trova di tutto. Per quanto lo riguarda, ritiene che «la mia storia familiare mi ha penalizzato. Sono finito a Regina Coeli, è un posto bruttissimo che però mi ha insegnato a vivere. Lì dentro mi facevo raccontare le storie degli altri carcerati e le musicavo. Alla fine ho scritto una canzone che si intitola ‘Libero’», anche se lui, che si considera un cantautore e non un semplice cantante, preferisce scrivere testi d’amore, anche per altri neomelodici. Per il frontman degli ‘A67, Daniele Sanzone il problema non è chi canta, ma il sottobosco che li circonda. La voce del gruppo crossover di Scampia, che in passato aveva lavorato con alcuni neomelodici, in un libro intitolato «Camorra sound» ha interpellato il gotha della musica impegnata napoletana, da Raiz degli Almamegretta a Edoardo Bennato: «Chi gestisce il business spesso proviene dallo stesso sistema o ne è contiguo. Per poter lavorare devi scendere a compromessi con questa realtà», sostiene. Tomasello conferma: ha pagato cinquemila euro per vedersi incidere un disco. I numeri sono impressionanti: i pezzi delle star più gettonate fanno registrare milioni di clic su internet, per quarantacinque minuti di esibizione si pagano pure 20mila euro e i loro dischi arrivano a vendere centinaia di migliaia di copie, legali o pirata. Il giro d’affari è stimato in 200 milioni all’anno, gran parte dei quali sconosciuti al fisco. Domandarsi se il bisogno di questo tipo di musica sia creato appositamente da un mercato semiclandestino o se sia la domanda popolare a far emergere le star neomelodiche è come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Il punto, semmai, per Sanzone è un altro: perché i musicisti engagé della città non hanno mai raccontato la camorra? Quali sono le ragioni profonde di cotanta amnesia?

NEMICI DA STADIO

Nel frattempo, i neomelodici spopolano nelle periferie italiane, pure laddove il dialetto napoletano è poco frequentato o addirittura osteggiato. A cominciare da quelle romane. Le due grandi capitali del Mezzogiorno, acerrime nemiche in campo calcistico, paiono invece incrociarsi su quello musicale. Per comprendere quanto sia vero me ne vado in giro per le strade di Tor Bella Monaca. Trovo solo conferme. «Sono trent’anni che da queste parti si ascolta musica napoletana», mi dice Mario Cecchetti, antico militante del centro sociale intitolato a Ernesto Che Guevara, presidio della sinistra nel quartiere. «È normale, a Tor Bella Monaca so’ tutti napoletani», risponde A., che incontro all’unità di strada di Villa Maraini, un camper che distribuisce siringhe sterilizzate ai tossicodipendenti e fa test per l’aids e l’epatite C. Anche lui, dietro la cadenza romanesca, nasconde origini partenopee: è nato a San Giorgio a Cremano e si è trasferito da queste parti quando era ancora in fasce insieme a padre, mamma e sette tra fratelli e sorelle. E l’odio viscerale tra napoletani e romani? Per il nostro interlocutore è solo calcistico e non esce dai confini del rettangolo di gioco. Nei bar di periferia si prende il caffè fianco a fianco, si incrociano i dialetti e spesso si ascolta la stessa musica. Su YouTube si trovano frammenti di un concerto di Anthony a Tor Bella Monaca. In un reportage su una serata di Gianni Celeste alla festa della Madonna del Rosario, al Quarticciolo, pubblicato su Napoli monitor, si legge che «all’uscita sul palco» il cantante «viene accolto come un idolo del quartiere» da meridionali di prima o lontana emigrazione e pure da un buon numero di romani tout court. A Torre Angela è di casa invece Emanuel Fraticelli, borgataro doc e neomelodico acquisito. Ha imparato il napoletano ascoltandone la musica e ora la riproduce con i consueti testi che occhieggiano alla vita di strada e titoli come «Due cuori condannati» e «Lettera a ’nu compagno«. Dice di sé: «Sono la voce del popolino, non mi interessano le persone ‘in’, le lascio nel loro mondo».

Dal punto di vista sociale, è molto interessante il fenomeno di una musica comunitaria, espressione di un’alterità apparentemente irriconciliabile con la cultura dominante e che sfonda nelle periferie globalizzate anche grazie all’emigrazione. Il sociologo Maurizio Ravveduto gli ha dedicato un libro che si intitola «La metropoli neomelodica». Parla di un «neorealismo periferico» che ha varcato i confini dell’hinterland napoletano conquistando i ghetti di tutta Italia: dallo Zen di Palermo al quartiere Librino di Catania, tra i palazzoni di Tor Bella Monaca e nelle periferie milanesi e torinesi, perfino nel nord-est dove sui muri si legge «Napoli colera» o «Vesuvio lavali col fuoco», «quasi a voler esorcizzare una somiglianza morale che unisce trasversalmente il mondo dei ghetti». A suo parere questo genere, espressione di una «cultura postmoderna», «è la metafora sonora di una minoranza che ha trovato nella musica il modo di contrapporsi alla cultura ufficiale con cui non sa discutere, di cui non condivide il linguaggio perché ne teme le argomentazioni». Antagonisti allo Stato e alle sue regole ma aspiranti nazionalpopolari, i neomelodici «spostano il conflitto sul piano delle apparenze, favorendo una convivenza tutto sommato pacifica». Scrive Ravveduto: «La musica neomelodica è la dimostrazione che anche i marginali possiedono gli strumenti per entrare nell’arena della cultura con il proprio codice di valori e significati, in opposizione alla mentalità borghese. È l’elaborazione artistica di una minoranza che non disdegna il ricorso alla violenza», come i gangsta rapper statunitensi o i narcocorridos messicani.

Allo stesso tempo, i neomelodici non contestano le logiche del mercato. Il loro immaginario è tanto antiborghese quanto plagiato dal liberismo e tradizionale dal punto di vista sociale e di genere. Parafrasando una celebre battuta di Margaret Thatcher, si potrebbe dire che nei loro testi esiste l’individuo, più raramente la società.

SIRENE MAINSTREAM

I neomelodici parlano a un pezzo d’Italia, non piccolo, che sfugge alle sirene del mainstream culturale e persino di quello alternativo, non ha anticorpi efficaci per resistere al dio mercato ma soprattutto non vuole sentirsi dire altro. Tomasello assicura che il genere neomelodico piace anche ai romani, dalle borgate fino ai Castelli Romani, perché «racconta storie nelle quali tutti possono identificarsi», napoletani e non. Se ai più risulta difficile riuscire a comprendere quali sentimenti passino per la testa del figlio di un detenuto, chi invece «non ha mia avuto una delusione d’amore o non ha vissuto un tradimento?» È con questa ricetta che questo sottogenere musicale è partito alla conquista delle periferie italiane, dove pare trovare conferma la tesi di fondo del sociologo Ravveduto: «Ognuno ascolta ciò che è capace di udire».