Ci voleva un animo sensibile, narratore di percezioni e memorie, infaticabile artista artigiano dell’animazione per ideare e dirigere un festival come Animavì. Annidato nella sua terra marchigiana a Pergola fra l’Adriatico e gli Appenini, non è lontano da Urbino sede fra gli altri di quella Scuola del Libro culla di uno stile di film animato degnamente rappresentato nel mondo da autori quali Roberto Catani, Gianluigi Toccafondo e appunto Simone Massi. C’è uno specifico del disegno animato dal volto umano, evocativo e delicato anche quando tratta di temi forti e drammatici, dai colori tenui a matita o a carboncino sfumato. Stile e segno che facilitano un approccio poetico, non necessariamente narrativo, di cui Massi, direttore di questo festival internazionale del cinema d’animazione poetico, è sicuramente esponente riconosciuto. Animavì – che vanta il supporto di numerose figure di spicco della cultura e dell’arte, insieme a contadini, minatori, ex emigranti e partigiani – vuole soprattutto rappresentare a livello internazionale il “cinema d’animazione artistico e di poesia”, quel genere di animazione indipendente e d’autore che si propone di raccontare per suggestione, prendendo le distanze in maniera netta dall’animazione mainstream.

Se il film animato è il fulcro culturale di questo evento, c’è molto altro che si manifesta nell’arco di cinque giorni. Innanzitutto c’è un’anima, altro concetto chiave contenuto nel titolo, insito nelle espressioni e testimonianze individuali artistiche, di memoria, di vita e di lavoro. C’è però anche un’anima collettiva rappresentata da una forza gioiosa di volontariato di una novantina di persone, con non pochi docenti attivi e archeologi senza sito, che credono profondamente nel progetto. Si va dalle diverse Silvie che assicurano con gentilezza vera informazioni e traduzioni a Nicola e Claudio, che non si limitano ad accompagnare in auto i vari ospiti qua e là negli agriturismo sparsi fra i silenti colli attorno a Pergola, ma sono amichevoli persone di riferimento pronte a risolvere ogni problema fra una conversazione e una dritta. E Lorenzo, Eleonora, Filippo, Mattia e i tanti dell’associazione Ars Animae che con funzionale leggerezza hanno fatto in modo che artisti, attori, anziani e giovani locali potessero incontrarsi e intrecciarsi nella pluralità di luoghi di questo festival semi-strutturato. Tanta partecipazione attiva, una sola assenza: quella del sindaco (di destra) di Pergola che, nonostante l’invito e una poltrona riservata in prima fila, non si è degnato nemmeno di un saluto. Non che se ne sia sentita la mancanza, ma denota un atteggiamento diverso dai rappresentanti di tutti gli altri comuni limitrofi -San Lorenzo in Campo, Frontone, Serra Sant’Abbondio- che si sono distinti per accoglienza in suggestivi siti panoramici e archeologici nonché per l’offerta gratuita dell’uso di preziosi teatri per gli incontri e come alternativa di emergenza in caso di pioggia (che non c’è stata, se non un pomeriggio, quanto è bastato per indurre il pubblico delle serate al Giardino di Casa Godio a munirsi di maglie e copertine per la decisa frescura). Pergola però è tutto il resto, con numerosi edifici e chiese dal medievo al 19° secolo, sedi di dipinti di valore poco conosciuti e dei magnifici Bronzi dorati, da cui il premio di Animavì, rappresentanti corpi umani e cavalli di epoca romana. Oltre alla vista, gioiscono tutti i sensi per le degustazioni di saporiti formaggi e tartufi neri, vini rosati, rossi Pergola aleatico (popolarmente ancora chiamato “vernaccia”, da vernacolo, locale) e il tipico Visciola, dolce e lievemente aspro come il frutto rosso con cui è prodotto, da bere con i cantucci. Gli intensi profumi di rosmarino e lavanda, i faccioni raggianti dei girasole coltivati in abbondanza, i suoni discreti della campagna curvosa e morbida e le sonorità ora grintose ora ninnanti sempre legate a un sentire radicato dei gruppi musicali Hombre all’ombra, Comaneci, La Macina, Morsellis, Luigi Grechi.

Radici, testimonianze, memoria. Il legame alla terra e al suo tessuto umano, conservarne il ricordo vivo anche quando le tecnologie mobili minano le capacità mnemoniche (e la difficoltà a trovare connessioni wi-fi si armonizza con questa dimensione materiale) si esprimono anche con la presentazione di personaggi di paese, da soli e mentre interagiscono con gli ositi più noti. Emblematico è l’asciutto anziano Ezio, artigiano di cesti di poche parole, che resta sul palco a lavorare manualmente anche mentre Marco Paolini tiene la sua conferenza-spettacolo Tecno-filò. Technology and me, ironica critica alta della nostra era post-Gutenberg. Lo spazio contenuto porta a prendersi qualche confidenza con il vecchio intrecciatore che, senza rispondere, tira a dritto con il suo mestiere e solo a lavoro finito, nel bel mezzo del recital, ne annuncia il compimento e se ne va. Molto più espansivo è il cantore in vernacolo Veraldo che accoglie la madrina Valentina Carnelutti improvvisando uno stornello a rima. Dello stesso tipo cantato a Sergio Staino, alla riscoperta della sua arte mai perduta di grande vignettista satirico anche se ultimamente condirettore dell’Unità sedotto e abbandonato, che con guizzo arguto da toscano di Piancastagnaio gli risponde cantando per le rime. Le storie delle persone “comuni” sono raccolte anche in video, nella fascia dedicata “Le radici e le ali. Memorie vive” con le narrazioni riprese da Simone Casetta (Don Gatti) e Filippo Biagianti (Duilio, Livio, Veraldo) che ci dicono con drammatizzante bianco e nero delle durezze della terra e della guerra, di solidarietà e di sopravvivenza.

Allora se il centro di gravità di Animavì è il cinema di animazione poetico, la consapevolezza esposta dalla direzione artistica è che esso non può avere luogo se non in piena sintonia con il vissuto umano e l’insediamento ambientale che ne è d’ispirazione. Lo interpreta perfettamente con raffinata sensibilità Georges Schwizgebel, componente di giuria con sinfonie di colori e forme in retrospettiva, disegnando il poster in cui le tonde colline del Cesano sfumano in vellutate poltrone di cinema. E all’intima storia con il cinema si richiama anche Mr.Sand, convincente opera prima della belga Soetkin Verstegen, realizzata con le tecniche di animazione degli albori, per rendere con ironica nostalgia la corrispondenza fra sogno e grande schermo per i ragazzi del secolo scorso. La centralità di un altro punto di vista è il soggetto di A photo of Me dell’altissimo australiano Dennis Tupicoff, docu-animatore affermato che qui parte dalla ricostruzione della propria memoria. Prendendo spunto da una propria fotografia all’età di un anno, di cui non ha alcun ricordo diretto, ma anche da sequenze dal film Arriva John Doe di Frank Capra, ricostruisce dalle testimonianze raccolte momenti sconosciuti di sé. Coinvolgimento emozionale e grigia empatia poetica alle prese con le leggi razziali naziste partono dal punto di vista di un cane e della sua dedizione per Malenka in Brutus della russa Svetlana Filippova, insignita del Bronzo dorato 2017. Ritrovare se stessi quindi rispecchiandoci nell’altro, riaffidandoci anche all’essenza semplice, anche alla memoria dei cani (per citare anche un film di Massi): tutto torna nello spirito di Animavì.