Si intitola Raccontare un mondo la mostra che aprirà al Pac di Milano il 27 giugno prossimo (visitabile fino all’11 settembre) e che punta il timone lungo le rotte africane, cercando di scandagliare i «fondali» della Storia. Solo che di mondi, in quell’enorme continente, ce ne sono infiniti – e tutti appaiono in mutamento.

Se ci si lascia alle spalle l’idea di un’Africa sventurata, saccheggiata ed erosa nelle sue risorse da colonialismi vari, intrecciati a pregiudizi di «lettura», le aree culturali che attraversano i differenti paesi – arabe, nordafricane, subsahariane, ma anche tracce europee e asiatiche – riaffiorano lentamente componendo un caleidoscopico puzzle che dà vita a 1300 lingue e altrettante geografie sentimentali.

«Spesso l’arte africana dà la sensazione di essere incentrata su colori, architettura, pittura, cinema e musica e così via, ma il senso dell’Africa è molto presente nella letteratura orale e scritta, e gli elementi simbolici delle numerosissime culture abbondano in racconti, miti, leggende, proverbi, romanzi, opere teatrali», afferma la curatrice Adelina von Fürstenberg nel testo in catalogo, edito da Silvana. È lei ad aver selezionato 33 artisti (la mostra presenterà anche una parte imperniata su video e performance, seguita da Ginevra Bria) per riconfigurare luoghi e dar voce a poetiche prismatiche.

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Perché fare una grande esposizione con solo artisti africani nel terzo millennio inoltrato? Non si rischia di cavalcare l’onda di mode e virus inoculati dal mercato occidentale? Al Pac, il pericolo pare scongiurato: la mostra avrà un’impronta cronologica che le permetterà di attraversare confini temporali e spaziali, a partire da quella «cesura» concettuale promossa da Malraux, nel 1966, durante il festival di arti negre a Dakar, quando riconobbe all’arte africana lo stesso statuto fondativo di un linguaggio dei manufatti greci e romani. Dagli anni Sessanta ai nostri giorni, l’itinerario avrà il suo trampolino di lancio intorno al gruppo che espose nella mostra del 1989 Magiciens de la Terre, che pure non mancò di suscitare polemiche per quell’altrove ricercato ed etichettato come tale da uno sguardo occidentale (quello del francese Jean-Hubert Martin e di André Magnin, spedito negli atelier locali per una selezione in autonomia). Fra gli altri, c’erano artisti come l’ivoriano Bouabré – scomparso nel 2014 – il beninese Adéagbo, i congolesi Kingelez e Chéri Samba, gli stessi che poi ritroveremo in moltissime mostre, nel corso degli anni, tra i «capostipiti» di una corrente estetica che non rifiuta l’Occidente e le istanze della modernità, ma mixa insieme territori fisici veri e propri (con le loro tradizioni, anche artistiche) e «colonizza» zone libere dell’immaginario.

Poi, è arrivata la generazione degli artisti consapevoli della blackness, impegnati intorno alle frontiere labili del postcolonialismo. Il sudafricano Pieter Hugo e il nigeriano Yinka Shonibare, per fare due esempi illustrissimi, engagé. E Barthélémy Toguo, che al Pac realizzerà l’opera site specific Road to Exile con l’aiuto degli studenti di Brera (un tappeto costituito da 50 bottiglie di plastica su cui si erge uno scafo ricoperto di fagotti). Ma c’è anche il senegalese Omar Ba, che preferisce giocare con le icone selvagge dell’africanità «fuse» con immagini della industrializzazione e delle realtà urbane in via di proliferazione.

La novità che propone la rassegna è la sezione dedicata alla performance. Ginevra Bria ha invitato Donna Kusama, Buhlebezwe Siwani e Anna Historical: l’attenzione è tutta sul corpo e sull’estraneità o politica della distanza, «in un’epoca di disumanizzazione del corpo femminile e di mancanza di codici espressivi per la molteplicità interiore».

 

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SCHEDA

Di fronte a un doppio empasse – non essere in grado di salvare il patrimonio artistico classico e contemporaneo del continente africano, né avere la possibilità di dar vita ad ambiziosi progetti culturali, ho deciso di lanciare la «Bandjoun Station», una piattaforma artistica no profit. Penso infatti che gli africani della diaspora debbano contribuire allo sviluppo del loro continente con le conoscenze che hanno acquisito in ogni campo.

Lavoro in stretta collaborazione con tutta la comunità locale promuovendo iniziative miste, cioè che si prefiggono obiettivi sia culturali che agricoli. È un tentativo di integrazione ambientale e di sperimentazione sociale: può fornire un buon esempio anche ai giovani del posto. Questo progetto consente loro da una parte di intrecciare collegamenti dinamici e corretti tra il gruppo di artisti residenti e i loro ospiti, e dall’altra, dimostra che è essenziale puntare anche sull’agricoltura per raggiungere l’efficienza alimentare. Infine, una forte azione politica: il nostro collettivo ha seminato una «nursery» per alberi da caffè: è un atto critico che amplifica quello artistico e denuncia ciò che, fin dagli anni ’70, Léopold Sédar Senghor aveva definito «un deterioramento dei termini di scambio». Questo deterioramento accade quando i prezzi dell’esportazione imposti dal nord globale, nel lungo periodo, penalizzano e impoveriscono i nostri agricoltori del sud. «Bandjoun Station» è anche un laboratorio di progettazione dove i miei colleghi artisti possono rimanere per lavorare alle loro opere. Risiedono in uno spazio creativo in situ – la «Bandjoun Station House». È qui che ospitiamo artisti e scienziati provenienti da tutto il mondo.

Realizzano lavori in tempo reale e opere monumentali che richiedono vasti spazi per la loro fabbricazione e installazione. E all’artista è richiesto di procedere sempre in collaborazione con la comunità locale e in armonia con l’ambiente.

(Barthélemy Toguo)