Interrogarsi sul corpo è operazione complessa che necessità di una risposta altrettanto articolata. Soprattutto quando il corpo non è un’astrazione concettuale che non ci riguarda bensì quando a essere protagonisti di quel corpo che si vuole nominare siamo proprio noi. Bisogna allora prestare attenzione, esercitare i sensi, con indulgenza, raccontare lo scandalo di un corpo che non rientra nei «canoni» che ci si aspetterebbe di incontrare.

Due libri recenti e apparentemente molto distanti tra loro restituiscono questo portato. Il corpo si sporge nella scrittura di due autrici giovani, Roxane Gay ed Emma Glass, che dicono invece come non vi sia criterio alcuno se non nel corrispondere a se stesse, alla forma imperfetta e autentica di ciò che si desidera.

Roxane Gay firma un memoir di rara potenza che si intitola Fame. Storia del mio corpo (Einaudi, pp. 267, euro 17.50, traduzione di Alessandra Montrucchio). Emma Glass pubblica invece il suo esordio, La carne (il Saggiatore, pp. 109, euro 17, traduzione di Franca Cavagnoli), favola nera e visionaria. Al centro di entrambe le narrazioni c’è una donna, un corpo di donna che emerge con forza da un baratro attraverso un profondo ascolto di se stessa. Sia Gay che Glass insegnano ad approssimarsi alla dismisura dei corpi, cominciando anzitutto dal proprio. Si deve poter sondare un lessico affettivo, a tratti scomodo e indigesto, che abbia il coraggio di toccare meraviglia e orrore, piacere e disgusto.

QUANDO IL CORPO diviene vissuto esperienziale, come suggerito dalla storia del pensiero e delle rappresentazioni in particolar modo novecentesche, i tratti del discorso si fanno intimi, non solo per la marca soggettiva ma per la ragione che del corpo si può raccontare da un interno. Del proprio anzitutto, come insegnano le scrittrici, nella cifra di una esorbitanza più difficile da costringere e contare. Fame e La carne ricordano come il corpo non sia una mera occupazione di spazio, e neppure designabile su perimetri certi. Prima di tutto perché sia quello di Gay che quello di Glass sono nella rivolta della propria deperibilità, non sono rassicuranti. E se è vero che, nella sua accezione generale, il corpo non si attaglia solo all’umano ma anche ai viventi non umani, quando esso è abitato da chi lo pronuncia quella parola risente di un’eccedenza materiale con cui si ha sempre a che fare.
In Fame, Roxane Gay, femminista e accademica tra le più influenti negli Stati Uniti, racconta la propria obesità e il modo in cui, arrivata a una ingovernabilità di sé, ha ribaltato la sua condizione per diventare protagonista di un processo di liberazione straordinario.

UN PERCORSO di conoscenza, dove l’indesiderabilità è stata la strada quasi obbligata per nascondersi dallo sguardo altrui, principalmente maschile. Dopo una violenza sessuale subita da ragazzina, Roxane Gay comincia a precipitare in una ingordigia senza fine, proporzionale alla ingiustizia ricevuta. Con una ferocia nell’accumulare cibo pari solo alla grande e scomposta voglia di scomparire. Il tema del disordine alimentare, con la sua incidenza e le sue statistiche in particolare negli Stati Uniti, sarebbe tuttavia poca cosa per raccontare quale ribaltamento riesce a rappresentare Roxane Gay di se stessa, con quanta cura, per esempio, narra dei cascami in cui è imprigionata da vent’anni, di quanto insufficiente sia l’operazione chirurgica propostale in una clinica per ridurre il suo stomaco. Sarebbe riduttivo descrivere cioè l’esplosione di sé quando si rende conto finalmente che quel corpo faceva male come la disgrazia di non essere mai state viste, di non essere mai state amate. Per una contraddittoria consonanza capita che più non ci si senta amate (e amati) e maggiore sia il sentimento di vergogna provato per se stesse.

C’È COME UNO SBAGLIO, una rottura che non chiede di essere riparata ma pretende, tirannicamente, di essere ascoltata. Strepita per anni, molesta fino all’ossessione, quando a un certo punto gli anni trascorrono e il nodo non diventa più quanta roba riesci ancora a ingurgitare ma quanto quella mole sia la tua infelicità manifesta al mondo, che nel frattempo comincia a disprezzarti. Ti punisce, non ha pietà, perché chiedi una pausa dalla retorica della seduzione. Perché, come dice la scrittrice, osi rivelare il prezzo di una fatica. Visitata dallo spettro di se stessa, Roxane Gay, non ha clemenza quando descrive del suo essere spezzata, del suo straniamento, del suo riconoscersi nell’attrazione per uomini e donne, della mancanza di speranza superata poi dalla lotta per la sopravvivenza. Il suo apprendistato è allora un’avventura di ricucitura che, lembo per lembo, ha costruito con la forza di dire di sé. Di narrarsi, autorizzando anche altre sue simili a farlo.

LASCIA UNA SCIA di grasso, sempre materiale ma nella declinazione dell’unto, il violentatore di Peach, protagonista de La carne di Emma Glass. E se Roxane muta la sua bocca nel paiolo bucato di un desiderio senza fondo, quella di cui racconta Peach è la minaccia di essere mangiata dall’uomo che le ha procurato del male. Il corpo di Peach si strazia ma per dire che lei, anche se sa di dover attraversare l’inferno, lo sa che quel frutto che è il suo nome, Peach (pesca), ha dentro di sé la soluzione ai suoi patimenti. Che lei resta comunque dotata di una generatività che le consetirà di guarire. Lingua tagliente con un ritmo e una ricerca letteraria da fuoriclasse, Emma Glass – che nella vita, nonostante una laurea in lettere, è poi diventata infermiera pediatrica per ragioni economiche – cesella le parole quasi maniacalmente. Se però il corpo di Roxane ha il senso di una maturità di cui, alla fine di un percorso, si intravvede la dirittura, quello di Peach resta nello scintillio di una fisiologia sentimentale. Così infatti, dopo che Peach comprende di non potersi liberare dal suo persecutore, decide di vendicarsi, digerendo una volta per tutte la collera.

LA CARNE è quella di cui è composto l’aggressore, fatto di salsicce per la precisione significando l’estremo rifiuto, nell’immaginario di una vegetariana come Glass al tempo della stesura del libro e della stessa Peach. La sorte di questi corpi allora, inestricabilmente legati l’uno all’altra, sarà tanto paradossale quanto liberatoria. L’uomo fatto di salsicce verrà infatti cucinato dalla stessa Peach durante un barbecue. E in quello stesso momento lei si trasformerà. Rimarrà un nocciolo, potrebbe essere scambiato per quello duro del frutto di cui porta il nome e invece è il residuo di sopravvivenza dopo la battaglia con se stesse.
Cosa rimane dopo tanta lotta, per arrivare a sapersi vedere per la prima volta? Il corpo, ospite ingombrante di passioni che però – nonostante l’odio di una violenza subita – ha la capacità di urlare la propria presenza. A volte di ricamarla con il sangue, come fanno Roxane Gay ed Emma Glass, specchio dolente e inverso l’una dell’altra.