Il western lirico dell’irlandese Sebastian Barry, Giorni senza fine (traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi, pp. 220, euro 19,00) è una franca narrazione sulla nascita degli Stati Uniti, che in maniera disincantata restituisce i rapporti di forza tra i popoli coinvolti, immigrati, aborigeni, colonizzatori e colonizzati, sullo sfondo della Guerra di secessione. Per Barry, questo è anche un modo per alludere alle violenze inglesi in Irlanda; del resto, dal suo racconto, nonostante la profonda empatia riversata su tutti i personaggi, sono in pochi a salvarsi davvero: «così va il mondo. Non esistono popoli virtuosi».

Povertà garantita
La storia è raccontata da Thomas McNulty, un adolescente che qualche anno prima ha lasciato l’Irlanda nel pieno della Grande Carestia del 1845. La Famine, provocata da fattori naturali ma resa micidiale dal dominio coloniale britannico, portò alla morte o all’emigrazione milioni di irlandesi. Tuttavia, quando in tanti passarono dall’Ovest dell’Irlanda alla frontiera degli Stati Uniti, la situazione non cambiò molto: povertà, violenza e stenti erano ovunque. Molto presto il racconto si concentra sugli scontri con gli indiani e con i ribelli del Sud: Thomas è approdato a un paese violento, e quegli stessi irlandesi che erano stati spazzati via da Cromwell come «parassiti» per «dare spazio alla brava gente» inglese, sono pronti a comportarsi allo stesso modo con gli «indiani». Da entrambi i lati della barricata, gli irlandesi combatteranno un conflitto che sembra anticipare, ma Thomas non può saperlo, la fratricida guerra civile che avrebbe dilaniato l’Irlanda nel primo dopoguerra, circa sessant’anni dopo.

La Storia è sempre presente, seppure sullo sfondo, come suggerisce una cartina della guerra di Secessione, presente nell’edizione inglese ad apertura di libro, ma non in quella einaudiana, che fin dalla copertina, con due cowboy a cavallo sullo sfondo del tramonto, sembra affidare il successo del romanzo alla storia d’amore.

La voce di Thomas rende le scene dei combattimenti brutali, asfissianti. Fatto di frasi brevi, e dettagli crudi e concreti, il romanzo procede per accumulo, in una lingua che alle volte sembra quasi arrendersi alla mera registrazione della banalità del male circostante: «uomini così malati che muoiono di morte». Ma Giorni senza fine è intrecciato di molti altri fili ed è nelle descrizioni di una natura sterminata e soverchiante e della storia d’amore tra Thomas e il «bel John Cole», che la lingua si divincola e si rende più viva. Forse proprio riuscendo a bilanciare la stanchezza dei giorni senza fine (e senza un fine) con improvvise rivelazioni che risaltano sulla pagina, il romanzo di Barry trova il suo equilibrio.

Accuratamente incolto
La lingua aspra, volutamente sbagliata, incolta della voce narrante, nella scrittura di Barry non si fa mai sciatta, e asseconda la contraddittoria proprietà di linguaggio che Thomas ha pure in dotazione. Se lo slang della frontiera non può che risultare meno screziato – nonostante la attenta traduzione di Cristiana Mennella, che predilige un dettato popolare ricco di anacoluti e voci basse senza esagerarne la caratterizzazione – la qualità polifonica della prosa di Barry viene comunque ben resa anche nel testo italiano.
Scavata in una quotidianità avventurosa, la storia fa quasi fatica a emergere e per la prima metà la sua traiettoria appare in ombra. Ogni fatto sembra cancellare il precedente, mentre Thomas si preoccupa di procedere nella vita: «Lo amavo mio padre, prima, quand’ero ancora un essere umano. Poi è morto, e io avevo fame, poi la nave. Poi niente. Poi l’America. Poi John Cole. John Cole era il mio amore, tutto il mio amore». La vita della frontiera che i due personaggi principali affrontano è ben lontana da quella raccontata abitualmente dai western, eppure riconoscibile.

I passaggi dedicati alle scene militari sono alternati a brani più o meno lunghi, in cui Thomas e John Cole si esibiscono come ballerini, e cominciano a riconoscere il loro reciproco amore. Per Thomas è una vera rinascita. «Questo ero, quando ho incontrato John Cole, un verme umano».

Compare una squaw
La scoperta porta con sé una nuova famiglia, quando ai due innamorati si aggiunge una piccola squaw, salvata dal massacro della propria gente. E proprio al personaggio di lei si deve la precipitazione del romanzo, la sua accelerazione verso un finale che contraddice la negazione degli effetti che il passato ha sul presente, quando John e Thomas sembravano calpestare un continente sempre vergine.