Mettersi nei panni di qualcun altro è una capacità che andrebbe sempre allenata. Le tecnologie attuali permettono uno scatto ulteriore: assumere la visuale, la prospettiva altrui. È ciò che succede in Eat your catfish, presentato all’Idfa di Amsterdam, dove lo sguardo attraverso cui lo spettatore guarda il mondo appartiene a Kathryn, una donna newyorchese affetta da sclerosi multipla. Il figlio Noah ha posizionato una camera sulla carrozzina, registrando – con il suo consenso – la vita della madre per ben sei anni. La quotidianità di una persona affetta da una patologia degenerativa in stadio avanzato viene mostrata senza alcuna retorica né sensazionalismo, ma piuttosto con rispetto e amore. Kathryn è una madre con una forte personalità, non le manca l’umorismo, i rapporti col marito non sono idilliaci, ha un bellissimo legame con il figlio maschio mentre la femmina si sta per sposare. Non può muoversi, la sua vita è legata ad un respiratore meccanico e ad un computer che le permette di esprimersi scrivendo, ma questo non le leva la dignità innanzitutto per l’amore – questa incredibile forza che attraversa il film – di cui è circondata, pur nelle mille difficoltà. Fino alla scelta finale, non mostrata ma comunicata in una frase prima dei titoli di coda, di staccare le macchine per porre fine alle sofferenze. Per dare forma a questo commovente spaccato di vita, il figlio Noah Arjomand ha coinvolto i registi Adam Isenberg e Senem Tüzen; abbiamo intervistato i tre autori per approfondire il processo che ha portato alla realizzazione del film e le tematiche che racchiude, dalla cura al fine vita.

I tre autori al festival di Amsterdam

Quando avete avuto l’idea di realizzare un film dal punto di vista di Kathryn e come ha reagito lei alla proposta?

Noah Arjomand: Ho pensato che mostrare alcune dinamiche della mia famiglia potesse essere utile anche per altre persone. Non volevo realizzare il mio memoir, decidendo io dove puntare le camere, quando filmare. Ho pensato allora di raccogliere la maggior quantità di girato possibile e capire poi in un secondo momento quale potesse essere la storia da raccontare. Credo ci sia un collegamento con la mia impostazione accademica da sociologo, nelle scienze sociali ripetiamo spesso di non voler imporre i nostri preconcetti su ciò che osserviamo. Kathryn era felice dell’idea perché le sembrava un modo di darmi indietro qualcosa, si sentiva colpevole per il tanto tempo che passavo prendendomi cura di lei, è un regalo che mi ha fatto.

Avete raccolto più di 900 ore di girato, come avete montato una simile quantità di materiale?

Adam Isenberg: Abbiamo visto le immagini mentre venivano raccolte. Siamo rimasti meravigliati e toccati, era un insieme complesso, intimo ed interessante. Credo che l’idea di una camera fissa sia stata veramente intelligente, così da non avere la necessità di una crew sul posto. Ad esempio, riprendere un litigio famigliare alle 4 di mattina, sarebbe stato altrimenti impossibile.

Senem Tüzen: Un montaggio che è durato tutti questi anni è stata un’esperienza che mi ha insegnato molto, all’inizio eravamo molto toccati dalla sofferenza di Kathryn e il suo dolore stava prendendo un posto principale nella storia, ma col passare del tempo sono emersi anche gli elementi che portavano gioia nella sua vita, il suo umorismo nero, il suo modo di comprendere il mondo. Potremmo dire che il montaggio aggiornava se stesso perché dopo alcuni anni notavamo cose diverse e nuove narrative sono venute alla luce.

Una situazione come quella di Kathryn evoca grandi questioni come la fragilità del corpo e il rapporto con la morte, ma anche alcuni aspetti molto pratici di cura quotidiana. Come vi siete rapportati a questa doppia dimensione?

N. Arjomand: Non volevamo che fosse un film a tema, ad esempio sulla sclerosi, sulla disabilità oppure sulle mancanze del sistema sanitario statunitense. Per questo non abbiamo inserito interviste, c’è solamente la narrazione molto personale di Kathryn. Abbiamo pensato che il modo migliore di approcciare questi grandi temi non fosse parlarne esplicitamente ma piuttosto mostrare le problematiche quotidiane, come quando arriva un’infermiera non preparata che io e mio padre abbiamo dovuto in qualche modo istruire.

C’è grande dignità nella vita di Kathryn così come c’è grande dignità nella sua morte. Pensate che questo film possa avere un ruolo nel dibattito sul tema dell’eutanasia?

N. Arjomand: Nel suo caso non si è trattato tecnicamente di eutanasia, ancora illegale negli Stati uniti, dove però si possono rifiutare le cure mediche come il respiratore. Credo che guardando il film ci possano essere reazioni diverse, un aspetto che sicuramente emerge è che ogni giorno è imprevedibile e diventa difficile decidere quale sarà il momento esatto in cui attraversare la linea. Inoltre abbiamo una grande capacità di «normalizzare» le situazioni, se il 90% della vita di mia madre era fatta di dolore, per il restante 10% riusciva a fare esperienza di momenti gioiosi. Per questo credo che la scelta sia veramente personale.

A. Isenberg: Non volevamo mostrare la morte di Kathryn ma piuttosto far entrare lo spettatore nella sua vita, credo sia una questione molto importante per il cinema e non solo, avere modo di conoscere qualcuno che si trova in una situazione diversa dalla propria: cosa significa avere un familiare che richiede una cura h24 e come ciò si riflette sulle relazioni. Credo quindi che possa sicuramente giovare al dibattito sull’eutanasia.

S. Tüzen: Penso che Kathryn abbia una sua risposta, ha lottato fino alla fine consapevole delle cose per lei importanti, i figli e la sua vita intellettuale. Quando è arrivata ad un punto in cui questo non bastava per essere gioiosa, ha preso la sua decisione