Circondata dal Mare del Nord, Terschelling è una piccolissima Isola della Frisia, regione dei Paesi Bassi, abitata da appena 5000 persone. Nei suoi paesaggi e tra i suoi abitanti ci immerge Steadfast On Our Sand del collettivo ZimmerFrei – Anna Rispoli, Anna de Manincor e Massimo Carozzi – presentato nella sezione Panorama del Festival dei Popoli di Firenze. Parte di un più ampio progetto del gruppo che indaga il rapporto tra l’essere umano e le realtà urbane, Steadfast on Our Sand non ha a che fare con una città, bensì con una dimensione all’opposto della metropoli, lasciando emergere un altro tipo di relazione tra le persone e l’ambiente in cui vivono, non meno significativo di quello cittadino e comunque fondato sull’azione umana che plasma la natura: Terschelling esiste infatti in virtù di un complesso e capillare sistema di dighe che impedisce al mare di inghiottire l’isola. Nel corso dell’alternarsi delle stagioni facciamo la conoscenza di una varietà di isolani.

Un allevatore – l’attività principale del luogo – si chiede perché sia rimasto a Terschelling mentre tutti i suoi fratelli se ne sono andati: non si può andare al cinema, a teatro, ogni spostamento passa attraverso il battello e il mare. «Forse – riflette – è una forma di libertà». O magari di protezione, dato che per un altro il prezzo da pagare per vivere sull’isola è proprio la «prigionia» per cui ogni gesto passa al vaglio dello sguardo di una società ristretta in cui si sa tutto di tutti.

Ma al cuore del film non è tanto la qualità della vita a Terschelling o le attività di chi ci abita, quanto la costruzione, attraverso i singoli elementi, di una geografia umana e naturale che – nell’organica fusione di immagini e musica – vira quasi sul metafisico. Fino al finale in cui assistiamo al Natale sull’isola, in cui ancora prevale la tradizione locale dei demoni carnevaleschi, che si aggirano per le strade per propiziare il nuovo anno, su quella «globale» di Santa Claus. Travestiti da creature mostruose, gli abitanti di Terschelling vengono osservati dalle mucche, altre protagoniste del film su cui infine si sposta la soggettiva e che paiono assistere allibite a questa sfilata di figure inquietanti.

La soggettiva «impossibile» degli animali è al centro anche di Territory, documentario dell’inglese Eleanor Mortimer in competizione nel concorso internazionale di mediometraggi e ambientato in un’altra piccola realtà di confine: Gibilterra, capitale dell’omonimo stretto e una delle due estremità delle leggendarie colonne d’Ercole che misero fine al girovagare di Ulisse. Protagonista di Territory non è però la storia né la mitologia di Gibilterra, ma piuttosto i suoi più antichi abitanti: una foltissima comunità di macachi che vive in libertà e che hanno continuato a prosperare attraverso le guerre, le colonizzazioni e l’avvento della modernità. Mortimer racconta che il progetto era nato per seguire quei dipendenti comunali che girano muniti di cerbottana per scoraggiare le scimmie dall’ «andare in città» e creare scompiglio. Ma con il lavoro sul campo le protagoniste sono progressivamente diventate le scimmie stesse, i loro volti e le loro movenze umane, e soprattutto l’immaginario sguardo con cui osservano l’affaccendarsi delle persone e la città di cui sono padrone indiscusse.

Il concorso internazionale di lungometraggi ci porta ancora più lontano, all’Avana, con Somos Cuba di Annet Ilijew, regista tedesca che ha lavorato con un materiale non suo. Il film è infatti frutto delle riprese fatte nel corso di sei anni – dal 2008 al 2014 – da Andres, cineasta dilettante che mandava clandestinamente il materiale in Europa e che si era incaricato della missione di documentare la vita quotidiana nel suo quartiere sottoproletario della capitale cubana, perché altrimenti «chi l’avrebbe mai fatto?». Dai vicini con cui Andres condivide il frigo all’amico dissidente che urla dal suo balcone «abbasso Fidel», Somos Cuba raccoglie uno spaccato della vita all’Avana con le sue contraddizioni, che si manifestano soprattutto nelle discussioni politiche con Leydis, la figlia piccola del regista che con l’ingenuità dei bambini proclama il suo amore per la rivoluzione ma subisce la burocrazia farraginosa che le impedisce di andare in Messico a raggiungere la zia.

Quella stessa burocrazia con cui lotta in Italia, a Napoli, Antonio, presidente dell’Afro Napoli United, la squadra di calcio raccontata da Loro di Napoli di Pierfrancesco Li Donni (Panorama). Composta da italiani di prima generazione, migranti, napoletani di vecchia data e addirittura un apolide mai registrato all’anagrafe, l’Afro Napoli è il mezzo con cui raccontare, dice il regista, «la Napoli di oggi fuori dagli stereotipi, nonché l’Italia stessa».

La missione di Antonio è mettere in regola i suoi ragazzi – tra documenti e permessi di soggiorno- in modo che la squadra possa iscriversi ai campionati professionistici. Attraverso i suoi sforzi e le partite dell’Afro il film ritrae un mondo «che vive un’integrazione compiuta in un’incompiuta realtà sociale», in cui i quattro protagonisti – il presidente e tre giocatori: l’italo-africano Adam, l’apolide Lello e l’ivoriano Maxime – lottano contro la burocrazia che ostacola e respinge un fatto già compiuto: l’esistenza stessa di una comunità multietnica.