Misurarsi con Parole passeggere. La pratica artistica come semantica dell’esistenza di Elena Bellantoni (Castelvecchi, pp. 242, euro 22) sollecita forse la scelta di uno scritto randomico perché è il libro a chiederlo. Bellantoni traccia i suoi processi creativi come itinerari che tanto più sono precisi tanto più chiedono la disposizione all’erranza di chi legge. La si segue, pagina dopo pagina, dentro una sorta di labirinto geografico e intertestuale fatto di interferenze, studi, suggestioni, rapporti, progetti e opere cercando di non perderla mai di vista, come quando tra una folla si segue chi sicuramente conosce le strade che si percorrono, pur sapendo che quella persona sta tracciando una dimensione tra sé e lo spazio che è necessariamente personale.

PERCHÉ, CHIUSO questo libro, si ha la conferma che l’artista deve parlare a sé se vuole che le sue opere, il proprio agire artistico, quand’anche chiami alla partecipazione una collettività, riescano a diventare la serie infinita di significati armonici e risonanze che l’opera stessa offre al mondo.

NEL VOLUME, l’autrice inserisce delle stazioni fatte di sue poesie e che, proprio perché stazioni, sono parte integrante dell’itinerario. Allora viene in mente Giorgio Caproni che scrive: «Ogni narcisismo cessa non appena il poeta riesce a chiudersi e inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi e portare al giorno quei nodi di luce che non sono soltanto dell’io ma di tutta la tribù».
Nel libro questa definizione di poesia si slarga a ogni espressione artistica battuta dall’autrice. Perché non si creda di trovarsi neppure per una pagina di fronte a un journal intime, ma davanti alla certezza che nella storia, avrebbe detto De Certeau, non si è autorizzati a occupare il posto degli altri, né a parlare in loro nome e quindi bisogna investirsi della responsabilità di ciò che l’artista chiama «auto etnografia».

L’ATTRAVERSAMENTO del suo percorso artistico è per Bellantoni un rischio, quello di far combaciare il corpo che si fa segno e la scrittura che si fa corpo nel racconto intrecciato di biografemi, che si allargano a comprendere una sorta di biografia collettiva, e realizzazione artistica. Se di semantica si deve parlare diventa necessariamente una semantica dei mondi possibili, dei contesti cioè in cui quella biografia è accaduta e nell’opera si è riverberata.
Nel libro l’autrice delinea una rete importante di riferimenti teorici, letterari, una bibliografia vastissima usata sempre come officina, banco da lavoro in cui emerge con nettezza il corpo che Elena Bellantoni restituisce alla parola e che il suo operare muta, riqualifica e rinomina rendendolo visibilità, proprio nella maniera in cui conferisce misure anatomiche esatte a idiomi scomparsi, come quello parlato dal popolo Yaghan.
Nella narrazione di una buona parte di vita artistica viene resa con lucidità la costante creazione di piani simbolici che partono da un vissuto per diramarsi in un’opera che si fa, per volontà dell’artista, gesto e pensiero critico disponibile. Per il tramite dell’adozione di segni linguistici – i più vari offerti dalla politica, dalla pubblicità, dai mezzi di informazione – nel lavoro di Bellantoni c’è, e nel libro è chiaramente descritto, la capacità di isolare luoghi autonomi del potere, ambienti circoscritti in cui vengono esercitati violenti rapporti di forza.

SE ORMAI L’IDEA di archivio sembra sottendere buona parte della produzione artistica di questi anni, nel caso di questa autrice sembra più appropriata la parola «deposito» che ha, nel suo significato per figura, la possibilità di costituire elemento custodito e poi riconsegnato utile alla formazione di quel giudizio a cui troppo spesso ci si sottrae. Un giudizio con cui interroga se stessa e l’alterità che è ciascuno sguardo che si pone davanti a una sua opera. Le pratiche e i nodi teorici più caldi del femminismo sono strumenti di straordinaria efficacia per Bellantoni.
Dal suo spostarsi nel mondo non certo secondo i principi del cosmopolitismo borghese che segnano ideologiche e fisiche tracce della violenza dell’ordine maschile, ma piuttosto secondo quella soggettività nomade indagata da Braidotti fino al mettere a disposizione non solo per l’operazione artistica ma anche per ciò che questa può e vuole rappresentare come chiave di lettura del mondo la sua vicenda esistenziale secondo il principio che «il personale è politico». E bene fa l’artista a sottolineare come queste parole dovrebbero essere spogliate dal loro abito di slogan per rifarsi quotidiano strumento politico pienamente intersezionale.
Pagine e opere che sono frammenti perfettamente conclusi e capaci di ricostituire un insieme che si tiene lontano da una sorta di strategia archeologica, da qui il non essere archivio, ma lucida emergenza testimoniale